È così, vero?
Seduta alla vetrina di una panetteria guardo scorrere le macchine. Sembrano un fiume di metallo. Sul ripiano davanti a me ho una focaccina morsicata e una bottiglietta di acqua frizzante. Con un gesto chiedo il caffè e il conto, ma resto seduta mezza storta sullo sgabello alto, con la gamba destra penzoloni. Sembrano un fiume lento di metallo. Lungo la via scorrono motorini, ambulanze, auto, scooter, suv. Seguono il ritmo del semaforo all’angolo, lenti respiri di smog, io resto immobile con la focaccia in una mano e lo sguardo assente. Sono le quattro del pomeriggio. È stata una giornata strana, cominciata con un gran mal di testa post sbronza, e trascorsa sotto terra in silenzio, nella quiete gelida. E poi di nuovo il traffico, le macchine, i semafori e la mia voce che si perde nel motore, quando cerco di intonare una canzone. Oltre il parabrezza, il vento e il sole tiepido portano vecchi desideri e le canzoni della radio mi paiono quasi sospiri, come se mi bisbigliassero all’orecchio segreti e sogni mai confessati. Mi sento così, mentre guardo il traffico scorrere sulla via, mentre i colori si fanno nuovi grazie alla magia del vento e del sole, mi sento come un sogno mai rivelato. Come quelle cose che vorresti, ma che accantoni in un angolo perché non ne vale la pena, perché non è il momento giusto e, dopo tutto - bisogna essere ragionevoli - si può aspettare. Come un desiderio superfluo.
Pago, esco, mi accendo una sigaretta e finisco con lo scacciare dagli occhi la nostalgia. Ogni tanto torna a bussare e mi premuro di scacciarla via con la mano, come si allontana una mosca noiosa.
L’abbiamo mai avuta una giornata di sole e vento? No. Abbiamo avuto solo freddo e pioggia, tanto freddo e tanta pioggia. Sarà per questo che, quando il vento soffia forte e lascia intravedere laggiù, lontano, le montagne, mi tornano in mente le cose che non abbiamo avuto. Come le giornate di sole e vento. Come il gusto di una fetta di torta nelle pasticcerie del centro, darsi la mano e concedersi parole e poggiarti la testa sul petto ad ascoltare. Non ho un tuo ricordo col cielo azzurro negli occhi. Non ho mai avuto un tuo sorriso soffiato dall’aura di primavera. Ricordo, però, il cinereo del cielo affondare le radici nel cemento della città frettolosa, che sembrava volerci masticare. Non c’era tempo. La concitazione, comune denominatore dei conglomerati urbani, ce lo ricordava costantemente, non c’era tempo e non c’era spazio per i nostri passi leggeri, i passi di due sconosciuti, che sul selciato si facevano via via più pesanti. Sarà per questo che stringo gli occhi e mi accendo una sigaretta, aspiro a lungo, butto fuori il fumo alzando un po’ il mento e mi arrendo alla malinconia, non è più nostalgia, ha già mutato forma; non piango mai, la luce è accecante, mi sento gli occhi umidi e allora li strizzo più forte. O, forse, è perché a volte mi manca quello che non ho avuto e le spiegazioni logiche non mi bastano, soprattutto non mi servono. Le giuste motivazioni non mi fanno stare meglio, la nostalgia la scaccio, ma non posso tenere lontana la tristezza, lei mi segue come un’ombra. Quello che non ho avuto è diverso rispetto a ciò che ho perduto. Nella perdita c’è un ricordo di quello che è stato. Quando una cosa non la si ha mai avuta c’è solo la domanda, la risposta potrebbe non arrivare mai. La mancanza potrebbe farmi compagnia per sempre.
E poi ci sono questi vetri. Vetri ovunque. La finestra che mi separa dal giardino, il parabrezza che mi ripara dal vento, la vetrina della panetteria che mi lascia studiare lo scorrere denso del traffico. E resto sempre lì, dietro a un vetro. Filtrata. Edulcorata. Protetta e migliorata nella forma, ma non nella sostanza. Ci sono questi vetri che mi tengono lontana, distante il giusto, e poi ci sono i riflessi che mi ingannano, mi svegliano la notte e feriscono gli occhi di giorno.
Io l’ho già capito che non guarirò mai, ho realizzato che sono un errore, che giro sgualcita come una giacca dopo una nottata in treno. Ho smesso di credere in chi vuole ripararmi o mi promette cure d’amore. Solo gli oggetti si aggiustano, al massimo le persone si rammendano l’anima, ma io non so cucire e vago col respiro a brandelli. Ma, nonostante la consapevolezza, a volte ho bisogno di affidarmi alle favole, di sentirmi dire che un giorno tutta questa tristezza finirà e che apparterrò a questi luoghi.
- È così, vero?