È quello che è
Non era come se lo aspettava, tutto quanto.
Suo padre era morto anni fa, lasciandolo con una madre che puzzava di rancido e di ruta. Non era mai stato in grado di costruirsi una vita, con tutti i crismi del caso, come i suoi coetanei del paese. Non aveva una donna, non abitava da solo. Fumava due pacchetti di nazionali senza filtro al giorno e lasciava che le cose capitassero. Gestiva un emporio, giù in statale, ma la cosa migliore che riusciva a fare era bere. La sua giornata era scandita da diverse bevande alcoliche; ad esempio, alle dieci e mezza di mattina era l’ora dei bianchi. Entrava in un bar a caso, ormai tutti sapevano la sua storia, ma ignoravano. Era alto e allampanato, sembrava che nei suoi vestiti ci nuotasse; nessuno lo guardava mai negli occhi da tempo, neanche i baristi quando ordinava. Nei paesi, come nelle grandi città, la storia è la stessa; con un po’ di ipocrisia si può far finta di essere sconosciuti e di non sapere niente di chi si ha davanti. Un cancellare le informazioni scomode, per mantenere intatti i propri interessi.
Era difficile che parlasse con qualcuno, si esprimeva male, preferiva i libri e i dischi; Jimi Hendrix e la sua chitarra avevano molto più da dire delle persone che lo circondavano. Anzi, si sentiva circondato, quando la sua anima avrebbe voluto stare in pace. Non c’era verso che in tutti quegli anni di vita le cose potessero cambiare, in primis perché non ci trovava un modo. I giorni in cui non lavorava, li passava a letto, fissando il soffitto e bevendo grappa alla ruta, fino a stordirsi e sudare tra i vestiti e le scarpe che in casa non toglieva mai. Non puliva, non metteva in ordine; c’erano polvere e cenere dappertutto e ancora l’odore di rancido lasciato dalla madre ormai morta anche lei, seppellita e dimenticata nel cimitero del paese. La poltrona di velluto sfondata e lercia, osservava la televisione senza che da tempo nessuno ci si sedesse mai sopra.
Non c’era alcuna persona del paese che andasse a trovare sua madre, se non qualche lontano parente una volta ogni tanto, ma solo per una sorta di dovere morale. Lui non andava mai, la morte era stato il simbolo dell’addio definitivo anche del ricordo. La strada di cipressi che portava all’ingresso principale non era quasi mai battuta da nessun abitante; troppo silenzio, un silenzio che veniva dalle cose passate.
Lo avevano classificato come “soggetto che non risponde agli stimoli e rifiuta ogni genere di confronto”. Il frate diceva lo mettiamo nelle mani del signore, che vede e provvede. Il suo processo di alienazione quasi volontaria era durato anni. Non c’era mai stata una volta, dal suo primo crollo che avesse pensato di poter essere qualcos’altro. Il decadimento del sé, inteso come la sua assoluta verità e il suo mondo, era arrivato in maniera naturale e piano piano, aveva iniziato a far parte della sua quotidianità. I medici davano un tempo alle ossessioni, un tempo ai farmaci, un tempo alla pulizia e all’ordine. Quando, dopo le prime volte che era uscito dal centro di riabilitazione passava l’assistente sanitaria a somministrargli il Disulfiram al lavoro, il vomito affogava sempre la fine delle sue giornate, uno sfogo rigettante imposto da terzi che lo faceva sentire sempre più molle e vuoto. Era andata avanti per un po’ di tempo, poi però aveva smesso anche con quella pastiglia, non era per niente utile, pensava; il mio pensiero non cambia. Quello che non riusciva a lasciare andare via dal suo cuore era la terra e il profumo di sole e di cielo, quando la brezza gli accarezzava il viso distrutto la sera tardi, prima di rinchiudersi in quel sarcofago che era la sua casa, stanco e ubriaco. Ma se ti sdrai ebbro in tangenziale a guardare le stelle non vale niente nessuna parola di nessun specialista. Il cielo per l’appunto era un conforto, qualche mistero lontano e silenzioso che gli dava un bruciolo di pace. Era quel posto
Il cervello prosciugato, si stava alzando dal letto barcollante per aprire il negozio. Quando lui era dentro, certe persone con un permesso legale lo avevano ristrutturato al posto suo, ci avevano messo un paio di commessi e tante piante verdi; e questo non lo faceva sicuramente sentire a suo agio come nella confusione in cui viveva prima, con la tuta verde da lavoro sempre addosso e gli occhiali con strati di polvere di solfiti. Una montatura un po’ troppo antiquata per i tempi moderni, quegli aviator da vista che non si vedevano in giro già da un po’ di anni, figurarsi in paese; un po’ troppo fuori luogo.
Ora era a casa, era libero. era libero di andare a bere quando e come voleva. Una libertà che lo spaventava, mentre camminava per il paese, con passo smarrito e barcollante. Avrebbe voluto infondo che qualcuno si prendesse cura di lui, nel senso che non voleva più sentirsi autosufficiente. Sputava per terra e si accendeva la quarantesima sigaretta della giornata quando il sole ancora non era del tutto scomparso dietro le colline.
Si allontanava quasi sempre prima di metà giornata, mentre gli studentelli giovinastri lavoravano e sgobbavano, e se ne andava a bar. Beveva i suoi bianchi, e mangiava olive e grissini, a volte le patatine; erano gli unici cibi dei quali ormai si nutriva regolarmente, di fatto non si ricordava l’ultima volta che aveva mangiato un tiramisù o il polpettone con le patate o una pasta ben condita. Il cibo era una cosa secondaria, mentre le pentole incrostate di cose bruciate nel lavello avevano formato ormai una bella mole di oggetti pronti da essere portati in discarica.
Doveva solo resistere ancora qualche settimana, altrimenti il TSO se lo sarebbe fatto da solo. Era impaziente, quasi nevrotico, il tempo passava sempre uguale e voleva darci un taglio con l’autosufficienza. Ormai era diventata una grossa cavolata che si sentiva raccontare come una favola; ci pensava ogni giorno sugli sgabelli dei bar e delle osterie, fissando la porta d’uscita.
Nessuno gli aveva mai detto, ormai da tempo, che stava bene. Ma la differenza tra stare bene o male, per quanto gli importasse, non la vedeva, non l’aveva mai capita. La parola irrecuperabile non aveva alcuna importanza o valenza linguistica per cui avrebbe dovuto preoccuparsi. Ogni giorno andava al lavoro ad occhi bassi, e a occhi bassi seguiva i clienti, pesava con le bilance i vari prodotti, confezionava regali, vedeva pesci rossi in sacchetto. Riduceva sempre le interazioni verbali al minimo, oltre che quelle visive. Per non parlare poi del contatto fisico.
Dormiva sempre vestito, sbavava sul cuscino, non pensava mai alle donne, al sesso. Il suo pene aveva lo stesso valore del suo alluce destro. Un’estensione materiale nello spazio. C’era solo un’enorme vacuità da riempire con l’alcol, c’era solo da trascinare il suo corpo molle a far si che la mente si annebbiasse al punto tale da non capirci più niente delle estensioni fisiche della sua mente. La solitudine gli regalava la possibilità di stare in silenzio, di non avere nessun tipo di interazione. Non era più necessario, non ne sarebbe stato più in grado. Forse lo sapeva, ecco perché voleva ritornare al Centro, non rispondere alle domande, stare a letto, non avere uno scopo. Il non avere uno scopo era la cosa più invitante che intuiva come migliore prospettiva.
Non che avesse scelto di non vivere; queste domande non se le era mai fatte, anche se di film ne aveva visti parecchi. Viveva come una pianta, si innaffiava continuamente della sua cosa preferita, del suo antidoto inconsapevole che gli regalava la sua prospettiva preferita. Il niente.
Era un lunedì straordinario, di quelli che per forza si deve uscire a bere un bel bianco almeno, almeno uno, alle dieci.
Il telefono squillava ininterrottamente sul comodino da tutta la mattina. Nella stanza c’era un silenzio che regalava pace, le finestre aperte facevano entrare luce e aria fresca. Fuori gli uccelli cinguettavano indifferenti battibeccando tra di loro. Il cielo era blu, di un blu così intenso che quasi faceva male al cuore. Le scarpe sul letto, le lenzuola ingiallite, pareva prendessero vigore e un’altra vita.
Entrò in casa il suo dipendente della mattina, sfondando la porta. Nessuno aveva lasciato in negozio le chiavi del magazzino, era urgente, basta cazzo non ne poteva più del suo molle capo di lavoro con quegli occhi da trota.
Lo trovò con le gambe penzoloni sopra il letto, attaccato al lampadario da una corda, la faccia mostrava un sorriso che sembrava quello di un santo beato.