È un momento difficile, tesoro
Sono le sette di mattina, il mio orario preferito per guardare il cielo dal finestrino del regionale 2378 diretto alla stazione di Roma Termini. Mi prendo un momento per pensare che ci sarà un tempo migliore per tutti e perfino per me. La signora seduta di fronte ha gli occhiali da sole e la testa reclinata verso destra quasi a toccare il finestrino sudicio; immagino che il suo nome sia Caterina perché ha un foulard giallo sul collo e mille rughe d’espressione attorno alle labbra anche adesso piegate in un mezzo sorriso. Dorme, chiaramente, mentre io non ci riesco mai, si vede che è una donna serena Caterina, come la mia canzone preferita di De Gregori (anche se lo dico di tutte). La riproduzione casuale oggi mi offre una canzone che invita a spingere e temo che la musica fuoriesca dalle mie cuffie stizzendo qualcuno. Credo sia una delle mie paure più ricorrenti quando invece dovrei fregarmene e lo so, perché poi c’è chi russa chi grida chi parla al telefono in una lingua straniera, che vuoi che disturbo faccia la voce ovattata di Divi.
Metto il telefono in modalità aerea con la speranza che una volta scesa dal treno possa stupirmi delle persone che mi hanno pensata e cercata proprio mentre ero a guardare il sole crescere sopra i campi di grano, l’attrazione migliore della tratta ferroviaria. Alla fine non mi cerca mai nessuno e un po’ mi dispiace. Mi chiedo spesso se tra tutte le persone che conosco, che amo e che so per certo amare me a loro volta, ci sia qualcuno che mi pensi durante la giornata. Immagino Anna che mentre cammina tra l’erba con la sciarpa nera attorcigliata fino agli occhi si preoccupa di avvertirmi che la mia band preferita suonerà nel suo paesino lassù al nord e che mi penserà; immagino Luca guidare la macchina e mettere la terza piangendo un po’ perché infondo gli manco.
Mentre scendo dalla carrozza la signora Caterina con la sua borsa gialla abbinata al foulard e al colore dei suoi occhi mi strattona una spalla e le sorrido chiedendo scusa.
Cazzo di nuovo. Lo faccio sempre. Mi scuso con tutti, prepotente e arrogante. Farai meglio a tirare fuori le palle Agnese, prima che qualcuno ti fotta per sempre.
Troppe parolacce, tira la schiena dritta e fai pensieri leggeri, me lo diceva sempre Lui, che con le scarpe comode e poco cibo sullo stomaco si supera tutto.
Cammino svelta mentre I Ministri vengono sostituiti con ferocia da Lucio Battisti.
Sono le otto e tre minuti, l’orario perfetto per camminare ad occhi chiusi mentre il sole di marzo mi riscalda la schiena lungo tutto viale dell’Università. Quando ero più giovane i miei piedi hanno sopportato quest’asfalto per molto tempo e subito mi riviene alla mente il giorno della prima laurea, quando ho tolto repentinamente i tacchi quindici per sostituirli con le Adidas di mia sorella: camminavo leggera assieme ai miei amici venuti lì fin dalla provincia, io con la corona d’alloro disfatta in mano e i capelli in disordine, un sorriso smisurato che non riuscivo a contenere.
Poi ho dovuto imparare a fare i conti con gli anni, con quegli stessi amici e le scarpe da ginnastica da buttare. Mi è sempre rimasto impresso il discorso che mi fece Marisol mentre attraversavamo le strisce la mattina in cui compì venticinque anni: “dobbiamo iniziare a prenderci cura del nostro corpo, niente più caffè, struccarsi a fondo tutte le sere e indossare i tacchi anche se fanno male”. Lei è sempre stata così schematica e razionale da fare paura e a lei mi affidavo totalmente, dovrei sentire come sta.
Cammino per mezz’ora senza sentire la stanchezza, penso già al caffè che mi aspetta davanti alla macchinetta all’entrata della scuola.
Lavoro al Giulio Cesare, un rinomato liceo romano che ricordo da sempre per i servizi al telegiornale, che quand’ero adolescente li invidiavo tutti quei ragazzi intervistati all’uscita della scuola perché manifestavano anche quando andava tutto bene e comunque riuscivano a risultare credibili e rivoluzionari pure dentro un’epoca fiacca come la nostra.
Salgo le scalette bianche in Corso Trieste, velocemente, i pantaloni aderiscono perfettamente alle mie gambe e questa cosa mi piace. Apro la porta principale e un silenzio assordante risuona nell’androne, ecco la bidella che con un cenno scomposto della testa mi saluta a modo suo. Mi piace quando tutto intorno a me non cambia, non si muove di un millimetro, mi fa sentire al sicuro. Che noia quelle persone che si lamentano sempre perché la routine li annoia, siete ancora più noiosi voi cocchi miei, tanto il chiosco di bibite a Tenerife non lo aprirete mai né inizierete mai ad andare a correre o ad uscire con gli amici tutte le sere, arrivati a una certa età non si può più pensare a queste frivolezze. Bisogna imparare a farsi piacere quello che entra solo nel proprio campo visivo. Anche se personalmente ne vorrei uno gigante, come nei film di Yorgos Lanthimos.
Il caffè lo prendo amaro perché troppi zuccheri fanno male, cerco il tabacco nella borsa e non lo trovo, lancio un calcio all’aria. Cazzo.
«Buongiorno, sa dov’è la quinta B?» Alzo lo sguardo e vedo Alberto.
Sorrido, non m’importa più di nulla.
Io e Alberto avevamo vissuto con il fianco attacco per sei anni e poco più. Un rapporto poco meno che morboso e asfissiante, lui con la sua testa sempre nella mia che mi chiedeva, mi supplicava di andarmene via e invece io restavo seduta a gambe incrociate sul pianerottolo delle sue fantasie a urlargli di guardarmi. Siamo stati sempre noi, sempre insieme, a poterci fidare e a capirci solo con il cenno di uno sguardo. Sulle scale della facoltà avevamo costruito la nostra casa, il nostro mondo segreto, supportato da quella che poi è stata la sua fidanzata Priscilla, quello che per un po’ è stato anche Paolo e la razionalissima Marisol.
Ma in realtà lo sapevamo tutti che io e Alberto eravamo diversi, che il nostro rapporto non sarebbe mai potuto essere eguagliato o quantomeno capito, compreso e accettato dalle persone che ci ruotavano attorno. Priscilla ci provava e per un lungo periodo ci era pure riuscita, ci scambiavamo consigli e studiavamo assieme, ma lo sapevamo entrambe come sarebbe andata a finire. Lo sapeva anche Paolo, con quei suoi occhi gentili, le guance sempre tirate su in un sorriso. Lo sapeva quando ci proponevamo sempre di andare a prendere i caffè per tutti dopo pranzo, quando chiamava mia madre per nome e salutava la mia migliore amica con un abbraccio. Nessuno a Roma poteva permettersi una confidenza tale con me, nessuno che non fosse lui.
E adesso è qui che mi guarda, con lo sguardo vivo che non ha mai perso.
Rimango zitta e attonita per qualche secondo, strizzo gli occhi per appurare che sia vero.
«Tutto bene? Sei diventata pallida quasi avessi visto un fantasma» ride, che cretino.
Lo chiamavo così quando avevamo vent’anni, forse pure diciannove, quando ci eravamo appena conosciuti e appariva soltanto nel mezzo della notte e io vomitavo fino alle quattro del mattino per dimostrargli tutto il mio amore.
Io sicuramente l’ho amato molto, lui non si è mai voluto esporre troppo e forse era proprio questo segreto che ci aveva sempre legati, che mi ha spinta per qualche tempo a svegliarmi ogni mattina con la speranza che proprio quel giorno rivelasse a tutti il segreto del Graal.
Alberto era un cavallo pazzo, uno spirito che con gli anni era diventato più quieto ma dentro bruciava bruciava bruciava e potevi leggerglielo negli occhi.
«Cazzo. Non sei cambiato di un soffio.»
«Agne, levati quel cazzo dalla bocca che ti stona addosso. Sei diventata piacevolmente elegante, una donna» ghigna compiaciuto non abbassando mai gli occhi dal mio viso.
Il mio viso che però è anche suo, da quando un giorno di sole mi confessò che nonostante fosse andato a letto con almeno cinquanta ragazze, io ero di gran lunga la più bella di tutte, anche quando tentavo di coprirmi la pancia e le cosce con i miei vestiti a tenda larghissimi che ci entrava dentro tutto il vento del mondo. Il mio viso che era anche un po’ suo, per tutte le volte che mi aveva toccato il neo sulla punta del naso e per tutte quelle in cui aveva voluto guardare il tatuaggio sul costato chiedendomi gentilmente di alzare la maglietta.
In tutti quegli anni io e lui non l’avevamo mai fatto l’amore come per non distruggere quel tempio sacro che era il nostro legame. Stavamo attenti a non sfiorarci anche se a volte era stato molto complicato resistere alle tentazioni della carne, soprattutto quando dormivamo assieme ubriachi ascoltando Le luci della centrale elettrica. Che stupidi cazzo.
Alberto continua a parlarmi e non posso fare altro che fissare le sue mani adulte. Le sue parole iniziano a scivolarmi addosso come acqua piovana che cade cade cade e quasi buca la pelle attorno alle ossa. Quello che vorrei fare, penso tacitamente, è solo togliermi le scarpe. Raccontargli cose necessarie: di quanto siano belle le città di notte, i termometri fuori dalle farmacie, dell’intensità dei cieli del nord, sentire il vento dietro la schiena, del giorno che finisce con qualcuno accanto che poi è la maniera migliore di arrendersi. Invece lui si fa sempre più vicino, mi sorride e dice qualcosa che non ascolto perché ho questo disturbo dell’attenzione che mi porto dietro come un handicap da quando sono piccola, dovrebbe saperlo, cosa parla a fare?
Suona la campanella, mi scuso, gli tocco una spalla involontariamente, un gesto che in una frazione di secondo mi crea turbamenti. Vorrei solo potermi rimettere le cuffie dentro le orecchie per ascoltare cos’avrebbero da dire i Florence and the Machine a tal proposito. Gli lancio velocemente un bacio mentre la mia schiena si fa sempre più distante dalla sua che invece immagino immobile ancora nel punto esatto dell’incontro. Entro in classe, vorrei sprofondare nel nulla.
«Prof che palle, ma perché chiama sempre me»
Antonella è la ragazzina più sveglia che abbia mai conosciuto, piena di parole che corrono veloci dentro la sua testa coperta da ricci sempre spettinati. La guardo come si guarda un fiore che sta sbocciando in mezzo a una distesa di erba secca e velenosa, con la stessa speranza e la stessa dolcezza.
Sbuffa seduta al suo posto infondo alla classe in attesa di una risposta. È incredibile quanto gli adolescenti si affidino completamente agli adulti, incredibile soprattutto quando lo fanno con me, che mi sento ancora una ragazzina dai modi goffi e svogliati.
Non ricordo quando sia avvenuto il cambiamento che ai genitori piace chiamare responsabilità, ricordo però il momento preciso in cui ho deciso di diventare un’insegnante: era un giorno di inizio giugno e davanti all’entrata della scuola superiore del mio paese ho sentito il profondo desiderio di poter vedere per tutta la vita gli occhi che hanno i ragazzi l’ultimo giorno di scuola, così pieni di speranze da far sbarellare. E poi rivederli tre mesi dopo abbronzati, innamorati, delusi, persi, scocciati, capovolti, più alti, cambiati, frammentati, che bisbigliano e si raccontano com’è stata la vita. Ho deciso di voler fare l’insegnante soltanto per potermi mascherare da adulta e intanto poterli spiare da lontano e da lontano tifare per loro.
Sono stata fortunata ad avere una sorella molto più piccola di me che mi ha permesso di incamminarmi su quel sentiero che inevitabilmente dimentichi appena compiuti i vent’anni, un sentiero fatto di mille scorci bellissimi, panorami anormali ma pure ostacoli e rami che cadono turbando il cammino di ognuno. Avessi avuto un’altra testa e altre mani sarei stata una sociologa o una filosofa perfetta, sempre lì a indagare e domandare cercando di capire chi è che effettivamente permette al mondo di girare. Invece no, ho preferito prendere due lauree in problemi, accettare le parole degli altri come proiettili e sentir raccontare storie che non mi appartenevano, scrivendo le mie invece su fogli di carta strappati o su finestrini appannati dalla condensa, iniziare a cambiare nome alle cose, dire gatto all’albero e vetro al mare, confondere suono e senso, inchiostro e aria, spazzando via il dolore dalle lettere del Suo nome che tanto è tutto a matita.
«Signorina Antonella, per cortesia, le ho chiesto di parafrasare, non di lamentarsi. Con le polemiche in questa classe, che poi sarebbe la mia, non si sopravvive a lungo. E la smetta di essere sboccata, mi dica piuttosto quello che riesce a leggere nelle parole di Eugenio Montale».
«Che lei non ha nient’altro da fare se non metterci in difficoltà. Non lo so, va bene? Mi rimandi pure, tanto non valgo un cazzo.»
Signore e signori, sì anche gli insegnanti hanno un cuore.
Cara Antonella, cocca mia, perché pugnalarmi così? Non ho mai voluto diventare la parte peggiore di me, quella che ho esorcizzato per molto tempo e tenuto a bada in un angolo remoto del mio corpo e della mia mente. Credete che io sia sola, disperata, disillusa, e sfoghi le mie frustrazioni su di voi? Allora provate a sorridermi ogni tanto, a studiare, a capire, a scavare dentro gli spazi bianchi tra una parola e l’altra di una poesia perché è solo così che ci si salva, mettendo a repentaglio il proprio cuore, avendo coraggio, scrivendo di voi stessi e cercandovi dentro le pagine di qualcun altro. Io sono un’esperta in questo, ve l’ho raccontato più volte, non abbiate paura di diventare come me che già siete migliori, con quei visi puliti. Io mi sento sporca, SONO sporca. Mi lavo ogni mattina tentando di grattare via le tristezze, le impurità, i segni rossi della matita con la quale correggo i vostri errori ortografici, quando invece vorrei solo abbracciarvi mentre scrivete con gli occhi carichi, del vostro amore non corrisposto, dei genitori che non vi capiscono o delle lettere che non avete mai spedito perché non sapete più come si fa. Vorrei alzarmi da questa sedia e gridarvi che mi sento male, che sono depressa, non vedo i miei amici da molto tempo e non bacio un paio di labbra da quando sono andata via da una vita che avrebbe potuto rendermi felice lontana da Roma.
Cari alunni, il professor Alberto è stato l’amore della mia vita ma ho avuto ancora di più, avevo un compagno dagli occhi blu e dalle braccia lunghissime per afferrare meglio la vita. Non pronuncio più il suo nome perché ho paura che appaia di nuovo davanti a me intrappolandomi di nuovo con il suo odore. È una lunga storia, lasciate perdere.
Ho vissuto quattro anni nella sua casa a Firenze. Abbiamo vissuto così ripiegati su noi stessi da non percepire più neppure il cambiare delle stagioni, sempre immobili dentro una notte che cuciva le schiene e un’alba che dava il nome alle cose, camminavamo per le strade sempre allo stesso passo, non importava se fosse zoppicante, con le cuffie intorno al collo come un rosario, a volersi bene pure la mattina presto (e sapete quanto sia complicato).
Ci eravamo costruiti intorno un universo alieno, altro, fatto di spazi ampi e infiniti, fisici, mai disgregabili o dimenticabili. Avevamo dato un nome a come stavamo e chi volevamo diventare. Io non parlavo più di Alberto e lui non mi chiedeva più a cosa stessi pensando quando fissavo i soffitti bianchi, era un tacito accordo attorno al quale ci eravamo promessi di vivere per sempre.
La nostra storia era fatta di poster rubati ai concerti, gradini altissimi dai quali cadere, porte di legno mai sbattute ma sempre accompagnate con dolcezza, atti purissimi, frasi di libri come coperte, cicche e parole d’amore gettate dalle finestre.
Mi sono innamorata di lui in ottobre, le foglie erano già cadute e la pioggia bagnava i treni interregionali schivando i miei pensieri. Mi sono innamorata dentro la cucina di casa sua, con le ginocchia alzate e i piedi appoggiati sul piolo centrale della sedia. Ci conoscevamo da pochissime ore ma sembravano anni, mentre lui – con la delicatezza che lo contraddistingueva – mi raccontava qualcosa che non riuscivo a capire né a sostenere, qualcosa di cui però riuscivo chiaramente a sentire l’odore mentre facevo scorrere velocemente i miei occhi sulla sua pelle scoperta alla ricerca dei segni e delle cicatrici del suo passato, come avrebbe fatto lui con me solo poche ore dopo. Mi sono innamorata mentre bevevamo succo d’arancia e lui intanto mi accarezzava la gamba sinistra recitando una poesia di Alda Merini affermando che ora a combattere la guerra, non sarei mai più stata sola. Mi sono innamorata mentre dal giradischi usciva la voce di Maria Antonietta che sembrava un po’ quella di una stella degli anni sessanta e noi in piedi abbiamo iniziato a ballare e avevamo gli occhi umidi dalla felicità. Non riesco più ad ascoltarla serenamente quella canzone. Mi sono innamorata quando sul suo letto ha disposto meticolosamente tutti i suoi dischi preferiti, i libri che lo avevano cambiato e i poster dei film che avevano avuto un’influenza positiva sulla sua persona. “Eccomi, io sono questo” si è presentato così, con una sincerità disarmante che mi ha lasciato attonita per molto molto tempo. Mi sono innamorata quando baciandolo ho sentito Xavier Dolan, Lucio Dalla e Pier Vittorio Tondelli tra i suoi denti. Mi sono innamorata quando quella sera stessa mi ha portata in giro per Firenze a vedere le pozzanghere in Santa Croce e i quadri di Klimt proiettati su ponte vecchio, ricordo di aver pensato: “sarò costretta a dormire seduta per il resto della mia vita”: avevo paura che il cuore pulsasse così forte da uscirmi dagli occhi. Mi sono innamorata dentro un’ora imprecisa, tardissimo o prestissimo, dentro una notte che stava per diventare giorno, dentro un domani ancora da scoprire, dentro la luce che iniziava ad accendersi nella finestra dietro la sua schiena, illuminando la sua sagoma perfetta, il suo profilo preciso che arrivava dritto a me come un’immagine sfocata, l’unica cosa che ricordo ancora nitidamente. Mi sono innamorata ogni volta che, ascoltando Farewell, mi obbligava ad interromperla quando la storia d’amore da Guccini raccontata si faceva adulta, matura, e iniziava a rompersi e diventare passato, diceva: “perché bisogna essere così tristi a vent’anni?”.
Vorrei essermi fermata anche io, avremmo avuto bisogno anche noi di un pulsante da premere in mezzo a tutta questa cazzo di nostalgia dilaniante. Stop.
Ad ogni modo, spero che prima di indossare i miei stessi maglioni infeltriti e le mie occhiaie rosse, viviate anche voi così di corsa, con la fretta nei piedi di chi ha paura di morire; di abbracciare e accarezzare così tanto da consumarvi. Un giorno mi capirete e capirete pure Montale che le cedeva il braccio ad ogni scalino.
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Esco dall’aula esausta, con le lacrime ai bordi degli occhi, la sclera rossa di pianto misto a delusione. Mi accendo una sigaretta che in questi casi è come prendere una profonda boccata d’aria fresca. Leggo sul display del telefono che Marisol mi ha cercata, sorrido perché è quasi come se mi avesse sentita. Mi chiede di chiamare a mia volta Priscilla, Paolo e Alberto per una cena insieme come ai vecchi tempi, fatta di vino bianco e canzoni suonate alla chitarra e cantate malissimo con le voci ubriache e stanche. Le dico che non posso, che sono incasinata e poi non mi va davvero di rivederli tutti insieme, che potrebbero causarmi una grave allergia dermica, ho paura di andare nel panico e smettere di respirare.
«Non essere stupida, tu verrai. Lo avevi promesso quel giorno di aprile sul terrazzo della facoltà che non saresti mai mancata per nessun motivo. Domani sera a casa mia alle 21, ciao tesoro.»
Mi vesto di corsa con un vestito a fiori comprato in Provenza quando avevo ventitré anni, stendo il rossetto vinaccia e il mascara quasi finito infondo al mio beauty case. Appoggio della bigiotteria attorno al mio collo e sui lobi delle orecchie: sorrido pensando a Lucio Dalla che parlava del suo corpo come un albero di Natale da addobbare tutti i giorni dell’anno. Mi guardo allo specchio e guardo la mia foto con Lui sotto Palazzo della Signoria, una polaroid vecchissima che sembra provenire da un’altra vita, ormai sbiadita come quando distrattamente si lasciano le fotografie sul cruscotto della macchina e i raggi del sole ne cancellano le tracce per sempre. Gli stampo un bacio veloce macchiando la carta lucida. Prendo un Uber fino a casa di Marisol, ha un bellissimo marito e due figli biondi con gli occhi chiari. Entro e ritrovo la stessa atmosfera lasciata lì sei anni prima. Vedo Priscilla venirmi incontro e abbracciarmi, in mezzo a noi una protuberanza che mi fa capire qualcosa, dietro di lei Paolo che è sempre lo stesso, invecchiato, le rughe gli si ripiegano sulla fronte, il sorriso però non è cambiato e lo riconosco da quello sorridendogli a mia volta. Seduto al tavolo c’è Alberto, con le mani che giocano nervose tra loro. Il marito e i figli di Marisol la seguono, mi baciano come fossero abituati a vedermi ogni giorno «noto con piacere che fai ancora lo stesso effetto ai bambini» mi dice Alberto sorridendo con gli occhi bassi dall’altro capo della stanza, non si alza e io rimango immobile, non so che fare.
Guardo le pareti ricoperte di foto, sento profumo di lavanda provenire dal parquet e dai muri che mi circondano, mi sistemo la fine del vestito nervosamente e dico a bassissima voce «esco in balcone a fumare, voi iniziate pure».
Mi segue di scatto come un cane affamato, lo sento aprire la porta a vetro dietro le mie spalle. Dal balcone vedo tutte le luci della città accese, c’è chi ancora non si arrende a mangiare sul terrazzo nonostante l’autunno incomba prepotente e feroce. Mi abbraccia da dietro come si fa con i bambini per togliergli un oggetto contundente dalle mani senza che nessuno si faccia male. Sento le sue labbra e sul mio collo e un brivido corre lungo il braccio sinistro, mi viene da ridere e mi giro.
Sento il mascara entrarmi negli occhi, vedo sfocato, così come ho sempre visto Alberto, lontanissimo.
«Allora sei tornata a Roma, mi fa piacere»
«Già. Sapevo saresti stato contento, non ti è mai piaciuto Lui» giro il viso verso la mia spalla per discostarmi da quella vicinanza pericolosa con il suo viso e per paura che il mio alito gli finisca addosso.
«Non è vero, non me ne è mai fregato un cazzo di Lui» disegna due virgolette in aria con le dita e alza gli occhi al cielo.
«Va bene ad ogni modo a me sì, quindi gradirei che non ne parlassimo e che forse, anzi, entrassimo dentro casa facendo finta di nulla. Io sto bene, tu stai bene e per favore non voglio sapere nulla di te.» Cazzo, rieccoci.
«Agnese sei incredibile. Non mi chiami da più di quattro anni e poi pretendi di piombarmi di nuovo davanti impedendomi di sapere che cazzo di fine hai fatto. Ho chiamato Anna mille volte in questo periodo chiedendo uno straccio di notizia sulla tua vita, ho mollato Priscilla in tempo perché facesse un figlio con un altro, mi sono sentito solo e disperato e tu dove cazzo stavi eh? Dove? A drogarti con quel pazzo forse?»
Caro Alberto.
Eccomi qui, mi riconosci? Sono io, Agnese, la donna a te devota. È strano riaverti tra i miei piedi, sentire di nuovo l’odore che ho cercato di fissare nella mia memoria per paura di dimenticarlo in questi anni di lontananza. Non sto bene e vorrei solo sedermi al centro di questo salotto e urlartelo in faccia. Avevo immaginato il mio futuro in tutt’altro modo ed è difficile, è difficile programmare ogni singolo istante della propria vita per poi, improvvisamente, veder crollare tutto. Piano piano ecco che si disfa ogni cosa. Prima iniziano a crollare i poster, i quadri, i ninnoli sulle mensole; poi si crepano i muri, i pavimenti, tutto intorno diventa polvere, si spargono i fogli e i documenti e le lettere d’amore custodite con cura nei cassetti degli armadi. È terribile, la fine. La riconosci (la fine dico) la senti camminarti dentro le vene e sai che non puoi combatterla e allora ti arrendi, fai le valigie e scendi le scale prima che ti crollino pure quelle sotto i piedi.
Ho visto la vita della persona che amavo sbriciolarsi tra le mie mani. L’ho visto gridare e poi stare in silenzio per giorni, bere il succo d’arancia che gli preparavo ogni mattina con la speranza che in un sorso il suo mostro interiore tornasse placido per un po’. Gli ho letto centinaia di libri seduta sul bordo del letto mentre la sua mano sudata mi contava i capelli, come diceva De Andre in quella canzone speciale.
Caro Alberto, come potrei mai drogarmi io?
Come fanno le tue labbra e la tua lingua a pronunciare quella parola di lato alle mie orecchie? Speravo di aver debellato il dolore e il viso di Lui dal mio cuore angosciante e poi eccoti, torni tu arrogante che mi fai piangere. Guardami, sto piangendo e tu te ne stai lì a fumare tranquillo con quella spocchia che non ti sei mai tolto. Ti credi migliore degli altri, non è vero? Eppure nonostante l’eroina, nonostante i buchi incontrollabili sulle braccia sulle mani sui piedi, Lui sapeva essere la persona più dolce e delicata che avessi mai conosciuto, mi aveva fatto dimenticare di te, era riuscito a trasformare la mia forza con la sua debolezza, mi ha resa la donna che hai ora di fronte agli occhi, una donna a cui non va più di prostrarsi ai piedi di nessuno, una donna che per tutta la vita sarà costretta a genuflettersi davanti a una tomba ma mai più ai capricci di nessuno, tantomeno ai tuoi.
Caro vecchio amore, cari vecchi amici, me ne vado. Prendo la mia tracolla peruviana e me ne torno a casa, voglio fuggire dalle vostre vite perfette, dai vostri mariti in completo da cerimonia pure per andare al supermercato, voglio correre e scappare da questa città così ansiogena che continua a soffocarmi e a picchiarmi sulla schiena.
Io i figli non ce li posso avere, stronzi! Vi grido, prima di sbattere la porta e rompere una lampada e guardarvi tutti con gli occhi iniettati di sangue. Come se fosse colpa vostra poi.
Non so di chi sia questa triste e folle colpa, chi mi ha voluto fredda e sola, chi ha voluto infliggermi una ferita così profonda portando Lui nella mia vita, togliendomelo poco dopo insieme a tutto il resto, al piacere che provavo a correre con la bici sul lungarno, a starmene aggrovigliata tra le lenzuola bianche che facevano contrasto con i suoi occhi, ad aprire le imposte e ogni mattina rivolgendo uno sguardo alla cupola del Brunelleschi chiedendo una mano al cielo sopra di noi.
Io sono stata felice, molto felice, e a guardarmi adesso dentro gli occhi non si direbbe vero? Chissà quanto avete sparlato di me in questi anni, quante risate pensando allo schifo di vita che mi ero ritrovata a condurre, al fianco di un tossicomane. Già, per voi non era nient’altro che quello, lo avete sempre allontanato, da voi e da me medesima, per fortuna che sono stata forte e non vi ho ascoltati. Sì, sono stata felice perché nessuno mi ha mai amata così tanto: ci siamo fatti radici e cresciuti addosso, ma cosa ne potete sapere voi, così perfetti e con le spalle sempre dritte e le cene con cento persone e i figli biondi e i mariti in completo pure per andare al supermercato. Io mi sono ritrovata costretta a piangergli sulle spalle, a trascinarlo per le scale quando le gambe gli si facevano deboli e il viso pallido, a scusarmi con le persone che avevamo attorno quando gridava in mezzo alla strada che era disperato ma mi amava tragicamente.
Cari vecchi amici, caro vecchio amore, m’inchino e me ne vado. Ho finito qui la mia recita, vi sorrido ampiamente, vi auguro una serena notte e una vita bellissima, splendida, felice!
Io tolgo il disturbo, mi genufletto davanti a voi e mi taglio la gola.
Francesco mi aspetta.