1 x 11
Mi giro tra le lenzuola sgualcite di un letto pieno di spine. Prima di aprire gli occhi e di concedermi alla mattina, cerco di ricordare a memoria quanto prima mi piacesse il tuo respiro.
Adesso è lontano, morde, ringhia, mi disgusta. Prima di cosa?
Cerco di intrappolare momenti accaduti, iniziati e finiti, come tutto quello che mi piace di meno.
Se qualcuno dovesse chiedermi: «cos’è che ti piace di meno?» io senza pensare risponderei muta, indicando solo con un dito tutte le cose che hanno una fine e che i malinconici come me sono costretti a sopportare.
Con il braccio sinistro mi scuoti riportandomi alla realtà, con una dolcezza che ho piacere a riscoprire in gesti piccolissimi come questo, ogni volta che non ci pensi e non mi guardi.
Apro gli occhi e ti sorrido, racconto divertita che ti sei addormentato con la bocca aperta. Poi, come un segreto inconfessabile, taccio i baci che ti ho incastrato tra i denti, sotto la lingua molle e la saliva della notte.
«Stanotte mi ha scritto Marina» dico invece, rapidamente e sottovoce, mentre cerchi di infilarti i jeans al bordo del letto. Non ti volti ma ti fermi, continui a cercare la gamba sinistra senza riuscirci. A volte sembri un bambino, mi spaventi.
«Mi ha scritto una lettera lunghissima. Dice che a Belgrado c’è freddo, che nei prossimi giorni è prevista neve. Ha tirato fuori dall’armadio il cappotto di sua nonna ma non riesce ad indossarlo, ha la fodera interna scucita, non riesce mai a trovare i buchi giusti per infilarci le braccia. Perde tempo e invece la vita va velocissima intorno a lei.»
Finalmente riesci ad infilarti quei cazzo di pantaloni ed esci dalla stanza, come ogni volta che ti parlo di qualcosa che non conosci e che non ti piace: scappi.
Quando ho conosciuto Marina aveva diciassette anni, io qualcuno in più, frequentavo già l’università. Conservava suo padre e suo fratello maggiore nel retro degli occhi per colpa di Milosevic e me ne aveva parlato seduta a gambe incrociate sopra del terriccio umido, sotto un manto di stelle curiose e indagatrici. È rimasta tutta la notte accanto a me, senza spostarsi di un millimetro, con quel suo nome parlante che sa di foresta, di corse adolescenziali nei boschi e bacche colte alle sei mattina con le mani rosse come la vita ad ottobre; finché alzando contemporaneamente i nostri occhi non ci è caduta addosso una stella incandescente e ci è venuto da ridere e poi da piangere nello stesso straziante momento.
Prima di tornare a Belgrado mi lasciò un bigliettino ripiegato su sé stesso nel fondo dello zaino, scritto in un inglese magistrale, accertandosi che riuscissi a capirne ogni singola parola.
Eppure, rimasi colpita da Mepak.
Quella l’aveva lasciata in serbo. Così, pura, secca, preistorica.
Mepak: la felicità risiede nelle piccole cose.
È assurdo come alcuni ricordi rimangano più nitidi di altri, come riescano ad infilarsi nella memoria a discapito di altri. Penso allora a quanto sia importante avere i frammenti di una persona incastonati dentro tutte le altre persone che hai incontrato.
Quanto sia necessario farsi carico di vite incredibili e storie prestigiose.
Perché secondo la proprietà della moltiplicazione si apprezza solo quello che resta alla fine.
Guardo allo specchio il viso che indosso all’alba, bianco, pulito, senza tutta quella merda che metto su durante il giorno. Di mattina tutto si può distinguere con più chiarezza.
Le rughe si fanno sempre più nette, marcate, profonde come solchi, che poi sarebbero tutte le sigarette che ho fumato, le risate a bocca aperta e le grida disperate che ho sparso dentro la bottiglia che ho lanciato in mare.
Le lentiggini si mostrano come tante piccole stelle, mi salutano e mi danno un bacio sul naso, prima di promettermi che andrà davvero tutto bene.
Le occhiaie viola dicono che abbiamo visto tempi peggiori, che non dovrei lamentarmi così tanto.
Mi passo una mano tra i capelli e ne tiro via almeno una ventina. Uno per ogni volta che non ho espresso la mia opinione, per ogni volta che ho peccato di ignavia, zitta, muta, in un angolo, a fissare chi sicuramente credevo più bello, più bravo, più intelligente di me.
Sono cresciuta distante da tutti, lontanissima. Guardavo il mondo e mi sembrava grande venti centimetri. Se sono un’adulta autonoma e responsabile è perché lo ero anche a tre anni, quando i miei nonni iniziavano già a sgretolarsi dalla vecchiaia eppure dovevano mantenersi vivi per me, perché non c’era scelta. Ho imparato a non fare rumore, a giocare da sola, a dormire spesso, a mangiare tutto per cortesia, ad essere gentile e aiutare gli altri, a risolvere i problemi porgendo una caramella o un fazzoletto di stoffa sempre piegato nella tasca destra dei pantaloni. Ho imparato così bene a stare zitta e a non fare i capricci che ad un certo punto ho trattenuto benissimo pure il dolore atroce che cresceva insieme al mio tumore. Avevo nove anni e nessuno se n’era accorto. Io sì, ma dovevo starmene buona ad ogni costo, per tutto l’amore che ogni giorno ricevevo e che secondo me non meritavo così tanto.
Sono sempre stata deprezzante verso me stessa e lo sono tutt’ora, lo vedo anche stamattina nel mio riflesso. Avrei bisogno sempre di una carezza in meno per sentirmi a posto.
E tu, sei riuscito ad amare fin dove nessuno aveva mai osato neppure affacciarsi. Hai disegnato la linea del mio equilibrio con le tue mani e il tuo accento strascicato che non si sa mai dove vuole andare. Con i tuoi piedi che si muovono rapidissimi sui pavimenti e le strade del mondo, curiosi, vispi, reattivi a qualsiasi emozione, attenti a percepire, ad accogliere e restituire.
Sei l’unica persona che mi piace perché sei entrato piano, senza disturbare.
Mi piaci perché hai saputo darmi respiro senza mai rivelarmi dov’è che nasce il vento.
Vorrei dirtelo stamattina, per vederti sorridere ancora.
Percorro il corridoio che separa la camera da letto dalla cucina a passi piccolissimi, quasi impercettibili. Non mi senti arrivare, hai un libro in mano che riconosco dall’odore, come quando da ragazzina uscivo dalla mia stanza di domenica pomeriggio e l’aria di casa sapeva di ciambellone allo yogurt.
«Non giudicarmi, mi andava di rileggerlo» esclami, colpevole.
Sento la tua voce dopo forse due giorni pieni.
«Chissà come faceva ad essere il nostro libro preferito da ragazzini» rispondo
«Se a vent’anni ti avessero tolto questo libro, di te non sarebbe rimasto niente. Forse solo una sciarpa troppo lunga, tre bottoni colorati e il biglietto di un treno.» Rispondi tu, senza alzare gli occhi dalla pagina scritta. «Il giorno in cui ci siamo conosciuti, poco prima di presentarci, ti ho scattato una fotografia senza che te ne accorgessi. Avevi un cappotto nero, lunghissimo, avevo paura ci potessi inciampare. La sciarpa a scacchi, lisa, orrenda, altrettanto calpestabile.
Nulla era della tua taglia, mi chiedevo da dove venissi, avevi gli occhi pieni d’incendi e smarrimenti. I capelli erano in disordine, avrei voluto pettinarteli per ore.
Tuttavia, per me eri bellissima. Tenevi questo libro lungo il corpo, tra due dita, per non perdere il segno, mentre con l’altra mano gesticolavi di fronte al viso di una tua amica. Stavate parlando del tuo ex, avevi il tono di voce alterato, altissimo. Ti avevo vista già molte altre volte ma non ti avevo mai sentita così. Ho scattato una fotografia alle mani strette dentro quel libro perché lo tenevi così saldamente che sembrava fosse un gioiello prezioso, un rarissimo Kokoshka, un amuleto, un segreto. Ero curioso di sapere, di conoscere, lo divorai nelle tre ore successive, tu ancora di fronte a me che fugacemente mi rivolgevi quegli sguardi da bambina che molto avrei odiato successivamente.»
Ascolto senza capire, ma è tutto corretto, tutto allineato, stai arrivando ad un punto di rottura, pianissimo, ma posso percepirlo.
«Mattia, domani parto per Belgrado»
Ti tolgo il libro dalle mani, lo adagio delicatamente sulla tovaglia piena di briciole.
«Vado a trovare Marina. Ho pensato possa avere bisogno di qualcuno che l’aiuti a trovare i giusti fori del cappotto. Potrebbe prendere freddo altrimenti.»
Mentre lo dico ad alta voce mi viene da vomitare. Penso velocemente alle finestre della mia vecchia classe delle scuole elementari. Erano enormi, trasparenti, attraverso ci si poteva vedere tutto il cielo del mondo. Quando pioveva era come se l’acqua arrivasse direttamente dalle nuvole, intonsa e nascitura. Non c’era nient’altro tra quei vetri e il cielo, nessun ostacolo, erano la prima e l’unica cosa che avrebbero toccato le gocce d’acqua dopo essersi liberate nell’aria.
Questa cosa mi piaceva da matti. Avrei voluto avere quella visuale per tutta la vita.
Bruscamente però quelle finestre finirono e vennero sostituite da altri infissi, da altri paesaggi, altre visuali. Mattia, mi è successo lo stesso oggi, mi succede lo stesso ogni giorno da quando ho sei anni. Non posso fare a meno di pensare a quelle finestre, se non vedo cosa c’è al di là dei muri mi sento soffocare. Sono nata per svegliarmi con il sole addosso e per addormentarmi con la luce della luna sotto le palpebre. Sono nata per ballare un passo a due con il vento quando muove tutto quello che ha intorno senza alcuna distinzione.
Quelle finestre, oggi, sono gli occhi di Marina. È il suo modo di suonare il pianoforte, in maniera zitta, come non producesse alcun suono, perché il suono è dentro di te.
Sono le sue gambe sedute, con quella strana postura che ho provato tante volte a riprodurre senza successo. Sono le onde che s’infrangono dentro gli scogli che ha al posto delle costole, la neve che si posa lenta sulle sue ciglia, la sua bicicletta lilla che arriva prima del suo sorriso con quel campanello che ricorda il suono di tutti gli ultimi giorni di scuola della mia vita. Belli e spensierati.
Mi dispiace Mattia, ti ho amato tanto, credimi, dal profondo del mio stomaco.
Ma ho contato tante volte. Ho perso notti, sveglia alla scrivania, a contare.
Ho usato strumenti precisi, scientifici, esatti.
Non ho più dubbi.
Io e te, moltiplicati, facciamo due.
Io e Marina siamo una sola.
E vince
solo
ciò
che resta
alla fine.