3 Ave Maria
Verrà un giorno in cui dovrò ricordarmi di te e gli occhi miei mi inganneranno e mentiranno ritraendoti troppo bello, per amore, o troppo imperfetto, per via dell’astio. Le mie mani tremanti non potranno plasmare la creta, né scolpire il marmo, ma il laboratorio chimico della mia bocca saprà riconoscere il tuo sapore anche quando verrà l’oblio. Quando verrà quel giorno, saprò ricondurti dentro di me. Allora, metto da parte carta e matita, chiudo gli occhi e ti disegno con la lingua, partendo dalla fronte imperlata di sudore, ma non quello effimero da palestra e tapis roulant, bensì quello acceso - incorniciato dalle sopracciglia aggrottate - di quando monti e sposti i mobili in soggiorno. Il sudore della fronte che ti cola di lato quando l’ascensore è guasto e corri fino al quarto piano, e mi trovi ad aspettarti sulla soglia, già presa dalla brama del tuo ansimare. Mi sposto di lato a leccare la guancia, a pungermi con l’ispida pelle del giorno dopo, e intrepida mi perdo nei labirinti cartilaginei dell’orecchio. Lecco le pieghe sperando di poter zittire per un attimo i tuoi pensieri, ben sapendo che non saprò lenire la tua rabbia e resterai sempre guardingo e pericoloso, come l’animale ferito che sei. Ah, se solo potessi, circumnavigando il tuo cranio con la lingua del piacere, scoprire a cosa pensi, a come mi pensi, a dove scompaiono ondìvaghi i tuoi desideri; scoprire se esiste un orizzonte da inseguire al di là dell’immaginazione e attraversarne l’oceano a nuoto, bracciata dopo bracciata.
Delineo il profilo del naso, una leggera gobba, subito dopo l’infossamento tra gli occhi, e poi scivolo sino alla punta scheggiata, come quella di una statua marmorea sfregiata dal tempo e dalle intemperie. Poco più sotto giace il labbro ben disegnato da un accenno di baffi e la tua bocca aperta che mi attende. Con la lingua passo in rassegna le arcate, regolari filari di betulle bianche, e precipito sui canini, cipressi altissimi oltre la cui cima non riesco a scorgere il sole. Cado nella notte, i tuoi denti candidi, incastonati nella volta del cielo, precisi e irregolari dettano legge sulla mia carne, brandendone la pelle. Gli incisivi centrali superiori combaciano con gli inferiori, più piccoli, mentre il laterale superiore destro, leggermente sbeccato, rafforza un sorriso oltremodo beffardo. Faccio scorrere il muscolo rosso lungo la masticazione interna dei molari e ne immagino le radici ancorate all’osso, la polpa sanguigna, pulsante che mi guida e mi invita a ripercorrere la strada dei baci sul tuo collo, per poi schivarti e scendere tra le anse e le colline del deltoide, prima, e del bicipite, poi. Scivolo giù lentamente verso la mano, a leccare e succhiare ogni tuo dito, a ringraziamento delle carezze e dei piaceri immensi, e il dolce sapore mi spinge a risalire affamata verso l’interno del braccio, dove, nell’incavo, l’arteria martella e scandisce il ritmo dei sospiri. Non sono ancora sazia. Ti disegno il petto con la punta della lingua, mi trattengo dal saggiare a morsi la morbida carne esposta, ma le labbra fremono e scendo in cerchi concentrici, come increspature sull’acqua, fino all’ombelico. Ora sei ritto in piedi davanti a me e qui, oh mio Signore, io mi genufletto.