Mi trovavo con Dio a una partita di briscola, quando d’un tratto mi disse: «Basta, mo mme ne vado, zzì!»
«Vado, dove?»
«Vado io!»
«Sì, certo... ma dove?»
«Devo annà. Punto.»
«Ma qui c’è una partita da finire! Siamo in parità.»
«A zzì, tanto già ‘o so come va a finì.»
«E come… no, non lo voglio sapere.»
E in men che non si dica, in un batter d’occhio, lui, Iddio nostro Signore, detentore di qualsiasi mondo conosciuto, flush!, sparì. Il sottoscritto, suo amico di vecchia data e che tutti voi conoscete con il nome di Tempo, informò seduta stante i preposti alla sicurezza dell’Aldilà riguardo a quanto appena successo. Per prima cosa andai da San Pio e con non poca ansia riferii lo sciagurato accadimento.
«Come, sparito?»
«Sì, sparito, flush, blam, spum…»
«Meh, avast! Ti song càpit. Ma hai controllato bene, ancora è nel passato.»
«Mio caro Pio, benché tu utilizzi il pugliese per esprimerti, non posso assolutamente non farti notare che “ancora” nell’ipotesi qui adesso menzionata non ha assoluta ragione d’esistere. Inoltre, mi preme avvisarti che il suddetto Dio nostro Signore, detentore di tutte le cose, non si trova nel passato né nel presente, figuriamoci nel futuro. Io che sono il Temp…»
«Fraticè i cchi stati parann’?»
E fu in quell’istante che fece ingresso nella conversazione l’altro addetto alla sicurezza dei piani alti: San Francesco da Paola che, in un dialetto identificabile all’incirca con quello cosentino e/o della sua provincia, chiese di cosa diamine stessimo disquisendo l’amabilissimo San Pio e il sottoscritto. La reazione di San Francesco da Paola fu come qui di seguito riportato un: «Iess, iess, iè!», che per quelli di voi che non conoscono il calabrese non si identifica con il più conosciuto inglese yes, ovvero sì. “Iess”, nel linguaggio dei Bruzi, è un intercalare corrispondente all’italiano ommioddioeoracomefacciamoèdavverounasciagura.
«Occorre sbrigarsi prima che tutti si accorgano dell’assenza del nostro Signore. Lo sapete bene quant’è delicato l’equilibrio che ci governa. Bisogna che si trovi Dio il prima possibile.»
«Bbèlle bbèlle facim tutt’» disse San Pio con un tono come a voler calmare la mia agitazione.
Partendo dall’unico indizio che avevamo, vale a dire quel “vado zzì”, la più immediata reazione fu di andare a controllare che il nostro Signore non si trovasse nei bassifondi, ovverosia lì dove dimora l’omega dell’alfa. In un attimo ci trovammo nel regno dell’Antidio, il quale si circondava sempre di gente discutibile, da Caos a Morte, fino a musicisti come Elvis e un paio di altri tipi poco raccomandabili che suonavano canzoni tutte dumm dumm e bam bam che proprio non si potevano sentire. Altro che dalle parti nostre, dove Ludwig ci deliziava con la sua eleganza!
E poi d’un tratto partì una musica che aveva qualcosa di stridulo e artificiale, quasi che ci fosse stato un filtro a schermarla. San Francesco non ebbe dubbi su cos’era: «Autotune a palla… chist è trap».
«Come prego?» domandai terribilmente frastornato da parole che in nessun vocabolario dei tempi avevo ancora incontrato.
«Ehi bambascione, auande ddò!» mi disse San Pio mostrandomi l’enciclopedia universale, e delucidandomi sul significato e le origini della musica cosiddetta “trap”.
Nonostante lo stordimento per tutto quel fracasso, riuscimmo ad arrivare al cospetto di Anti. Gli domandammo se per caso il Signore di tutte le cose fosse passato di lì, e lui in un intercalare simil milanese rispose: «Uè grandissimi! È passato di qui, ché dovevamo metterci d’accordo su un business da 100k e poi, taac!, è sparito».
«E non sai dove fosse diretto?»
«Eh figa, aveva un ape, mi ha detto, e un concerto…»
«Un concerto? E a dduv?» chiese San Francesco.
«Ehi giargiana, ma che ne so! Ha detto così! E ora andate, ché ho un meeting!»
«Perbacco!» esclamai, illuminandomi: sapevo cosa fare. C’era solo un luogo dove il Signore nostro poteva intrattenersi con ape e concerti e quello era la terra degli uomini, casa vostra. Ebbene, assunte le sembianze terrestri, partimmo alla ricerca di Dio. In una Fiat visitammo pub e locali di qualsiasi genere, teatri e stadi finché dopo lungo circumnavigare, finimmo nei pressi dell’Hinterland milanese, in un palazzetto gremito. E fu lì che sul palco vedemmo l’oggetto della nostra ricerca, il quale, assunti i panni di un umano dai mille disegni sulla pelle, non mostrava di certo una bella cera. Attesa la fine del concerto che – parrà anche un controsenso ma così fu – al sottoscritto sembrò durare un’eternità, ci avviamo verso il di dietro del palco per parlare con il nostro Signore e incitarlo a tornare lì dov’era il suo legittimo posto. Ahinoi, un tipo dalle spalle larghe e gli occhiali da sole in volto ci sbarrò la strada.
«Non si passa» affermò l’energumeno.
Per fortuna che San Francesco riconobbe l’accento e gli chiese: «Ma tu sii e Cusenza?».
«I Rende» rispose l’omiciattolo.
«Fraticè, sugni i Paola! E fannii passari.»
«Nù puozz’.»
«Eddai, ohi fraticè.»
«E passa pà, ma muvitivi!» replicò l’altro.
Nulla di ciò che si dissero i due fu per il sottoscritto comprensibile. Vi basti sapere che “fraticè”, o come si chiamava quello, ci fece passare. Appena in tempo per intravedere nostro Signore scappare da una porta laterale e infilarsi in un furgoncino dai vetri oscurati. Fummo costretti a un inseguimento forsennato che si concluse al cospetto di una casa di periferia. La porta della suddetta villetta era aperta, quasi che il Signore aspettasse la nostra venuta. E così era. Di fatto, ci attendeva su un divano tutto consunto senza maglia e con una birra in mano. Ci fece segno di sederci.
«C’è bisogno dè un cambiamento» esordì Iddio.
«Signore…»
«E statt’ citt…» mi intimò San Pio, e io mi zittii.
«Voi siete flashati co’ a musica classica pecché ve credete superiori. E invece qui a ‘mo svortà. Ce vole ‘na musica nova, come questa, come a trap. E nun vè pensate che è solo yo yo e autotune. Ho lasciato tutto ppè venì qua, pecché me so accorto che stava a nasce ‘na musica nova, un movimento novo. Voi no sapete, ma a trap c’ha la stessa voce de Gesù, paro paro, ce parla de stesse cose, de valori, da gente che è urtima, che soffre, quelli fori dall’hype, pe intendese» fece una pausa, «l’artro giorno ho sentito ‘sta canzone che diceva quarcosa sur fatto che l’omo cambia sempre, che nun è mai uguale, vive seguendo er flusso. Era ‘na canzone trap. Allora me sono chiesto: e noi? Noi qui in questa stanza, quand’è stata l’urtima volta che semo cambiati?»
«Ma Signore noi esistiamo per essere eterni…»
«Bella, cì ‘o so. E l’eternità nun po’ cambià? Ma chi to dice a te ‘sto fatto? Chi to dice che nun se po’ essè eterni e comunque cambià?»
«Ma…»
«Sì, mo’ tu me voi ddì che noi semo ortre ‘ste cose.» Mi guardò dritto dritto e aggiunse: «Zzì, ma nun l’hai capito? Nun hai capito che ppè essè fori da ‘ste cose, amo finito ppè essè dimenticati da tutti, e che se nun c’è nessuno che ce ricorda, noi nun esistemo? E in fondo ‘o sai anche tu che c’ho ragione, che è così. Che saresti tu se nessuno te contasse?»
Iddio poteva anche non essere propriamente elegante quando si esprimeva, eppure tutte le volte che faceva questo genere di discorsi, finiva sempre per essere illuminante. Fu comunque così che da quel momento nel luogo che è ogni luogo si ascolta anche la trap. Piace a Dio, certo. A me piacque il discorso che fece quella volta. Bella, zio.