A rubare le arance
Metto il detersivo sulla spugna e comincio col lavare le posate. Dopo averle strofinate le sposto nella vasca sgombra e pulita dell’acquaio. Dacché ho lavorato in pizzeria, ho imparato a prestare un’immensa attenzione ai rebbi delle forchette, li pulisco bene e nei diversi sensi col terrore che possano restare dei pezzi di mozzarella. La mozzarella da scrostare è un incubo. È arrivata pure la bolletta della luce da pagare, un altro incubo, ogni volta mi pare sempre più cara. Un giorno mi devo mettere con calma ad archiviare le bollette nei faldoni, un giorno controllo le spese e cerco di capire se effettivamente mi convenga restare con questo fornitore o se non sia meglio provarne un altro che costi meno. È una di quelle cose pallose che, se non sei ricco sfondato, vanno fatte, ma non oggi. Sto lavando i piatti, senza guanti perché altrimenti ho la sensazione che scivolino tra le mani per via del detersivo, li passo con la spugna prima davanti e poi sul retro, ripeto l’operazione e infine li ammonticchio nel lavello in attesa del risciacquo. Ora che ci penso c’è anche l’umido che andrebbe buttato, poi quando esco col cane devo ricordarmi di prenderlo. Puzza un po’, perché ci sono i resti del pesce di ieri sera. Il tuo odore lo riconoscerei tra mille, anche in mortuaria con un corpo con una gamba in cancrena sul tavolo, riesco a sentirlo nella stanza che si muove, che si sposta. Il tuo odore prima di ogni altra cosa, come se fosse stato impresso a forza nel cervello. Prima ancora di averti, prima ancora di sentire le tue mani addosso, prima di tutto questo c’era già il tuo odore. Non un profumo particolare, non l’ammorbidente. No, intendo proprio l’odore delle tua pelle, inciso da sempre come qualcosa di conosciuto, di buono, qualcosa di giusto. Passo ai bicchieri e poi mi mancano giusto giusto la brocca, le pentole e ho finito. Che poi a voler essere sinceri c’è un solo odore che tutti conosciamo anche se non l’abbiamo mai sentito: quello della morte, della decomposizione. La prima volta che lo si sente si ha un attimo di tentennamento, perché lo si conosce già pur senza averlo mai annusato prima, e questo lascia spiazzati. Perché l’odore di decomposizione induce all’automatica repulsione e reagiamo come gli animali, che di fatto siamo. Quella puzza di decomposizione ci fa arretrare, ci fa mettere la mano sul naso, istintivamente un rigurgito di vita ci spinge lontani da quella puzza. Qualcuno effettivamente vomita. Qualcuno resiste, ma con le viscere piegate e lo schifo dipinto sul volto. Animali. L’atavico ribrezzo per la natura morta, i vermi e il tanfo di materie organiche che si autodigeriscono.
La natura morta è, in realtà, già vita.
Al puzzo di decomposizione seguono il terrore, la paura, la repulsione, la spinta a correre verso la vita, lontano da qui, lontano, verso il sole e i colori dei fiori. È l’istinto che ti spinge a sopravvivere, che ti spinge verso un odore e ti allontana da un altro. Una pentola è fatta, passo alla seconda e poi pulisco i fornelli. O forse li lascio così? Non ho molta voglia di pulirli. Guardo l’orologio, c’è tempo. Potrei lasciarli così. Ma no, via: li lavo subito così non ci penso più. E allora mi concentro sul piano cottura, sui bordi, sulle piastrelle. Mi concentro sulle macchie e ritorna il pensiero al tuo odore, ritorna come la risacca del mare ad ogni maledetta onda e io lo ricaccio, lo nego, lo affogo. È andato via. Ci sono da fare le cose di tutti i giorni, organizzare la settimana, far partire la lavatrice, oggi carico i capi scuri e forse potrei decidermi a lavare quella t-shirt che ha su ancora il tuo odore e che a volte, ancora, annuso. Sempre combattuta tra il ridere e il piangere, alla fine la ripongo di nuovo nel cesto della biancheria sporca e penso che prima o poi il tuo odore svanirà da lì e allora io potrò ricominciare a prendere il sole, a sentire il tepore nell’incavo delle ginocchia nude, a godere della brezza leggera sulle braccia quando pedalo in bicicletta. Penso che quando sparirà il tuo odore, sarà di nuovo primavera, io riprenderò a fare le cose di tutti i giorni, cose che faccio già adesso, ma quando sparirà vorrà dire che in quelle cose di tutti giorni sarà venuto meno qualcosa. E ci sarà posto per qualcos’altro. Ci sarà posto anche per sognare. Chissà se sarò una persona nuova, magari migliore o peggiore rispetto a quella che sono ora. Oh i fornelli sono una meraviglia, la cucina è a posto, sistemata.
La t-shirt è ancora in fondo alla cesta. Aspetta il suo momento.
Io aspetto quel momento.
Come quando da bambini ci si arrampicava sugli alberi - e i bimbi fanno in fretta a capire cosa sia meglio fare per salire sulla corteccia. Via i sandali, via il vestitino, si saliva in mutande e piedi nudi, le nocche delle mani scorticate, ma a chi importava? L’obiettivo era salire in alto a rubare le arance, ma il gioco stava nell’arrampicarsi: i piedi inizialmente indecisi, si facevano via via più agili e veloci. E se falliva il piede, le mani divenivano artigli e le cosce si stringevano di colpo attorno al tronco, mantenevo la posizione e poi ripartivo, agguerritissima. Quanto era bello scalare gli alberi, la pianta dei piedi tutt’uno con la corteccia, la fronte sudata coi capelli incollati e lassù, in cima, ad aspettarmi: le arance. Salire su e poi tirare quelle guaste a quelli rimasti sotto. E mangiare a morsi quelle buone stando cavalcioni sul ramo. Il succo che colava lungo la mano e il braccio. Le unghie nere e il succo rosso. L’odore di sudore degli altri bambini. Le mani in faccia per fare a botte. E il profumo di arance tra i capelli.
Poi c’erano le estati al mare, appena potevo scappavo in pineta e mi sfilavo le scarpe e agli altri bambini pareva un po’ strano, ma era più forte di me: gli aghi sotto i piedi non mi davano noia, mi piaceva sentire la terra, i sassi, sotto i miei passi, c’era tanta polvere e tornavo sempre a casa lercia. I capelli arruffati, le gambe piene di graffi e resina, che mia madre rassegnata ripuliva con un batuffolo di cotone intriso di olio. E lo faceva con amore e delicatezza. In quei momenti era gentile, tanto, che a volte pensavo “potrei abbracciarla” e nel farlo trattenevo il respiro mentre il cuore scappava via dal petto. Tremo ancora adesso.
E poi al mare, in pineta, c’erano i nodi nei capelli, il coltellino svizzero per incidere il legno, i formicai da stanare con un legnetto e c’era la quiete del dopo pranzo, le cicale, la brezza che sfiorava le gambe secche, i lividi sulle ginocchia che nemmeno l’abbronzatura poteva nascondere.
Io aspetto quel momento.
Il momento autentico in cui potrò sfilarmi le scarpe e camminare a piedi nudi e vivermi le sensazioni per quello che sono, senza dover tirare il freno a mano del raziocinio. Senza dover usare il buonsenso, ma essere solo istinto.
Ascoltare, scrutare, annusare, toccare, sbranare.
Io aspetto quel momento. Il momento autentico in cui potrò abbandonarmi ai miei cinque perfetti e infallibili sensi e tornare ad essere un’animale libero.