Alessandra non lo sa.
Chiudo gli occhi e mi immagino di avvicinarmi leggermente a lei mentre mi spiega cosa ne pensa della crisi in medio-oriente. Penso che non possa sperare di mantenere alta la mia concentrazione se intanto si lega i capelli, proprio in quel modo che adoro, andando a creare una scultura post-moderna tutta in movimento proprio sopra la sua nuca.
Soprattutto perché poi aspetterò solo quel magico attimo in cui con due dita deciderà di far cadere l’impalcatura sorretta da quel timido laccio e quell’ammasso di capelli imploderà sulle sue spalle in un istante, come in una demolizione programmata, a cambiarle tutti i lineamenti e i punti di riferimento del suo volto.
È un crollo gentile, che non fa rumore, ma che le cambia i connotati. E cosa non darei per essere travolto all’improvviso da quel crollo, in una notte qualsiasi di giugno.
Mentre formulo questo discorso confuso, lei sta continuando a parlare e decido di allungare una mano per interrompere i lavori. Le afferro la nuca per avvicinare il orecchio alla mia bocca e sussurrarle la cifra esorbitante che pagherei per essere travolto da quella coltre informe di capelli.
E da lì, con un balzo, ci ritroviamo a rotolarci come balle di fieno, forse questa volta alla fine di giugno, tentando di svestirci come ci viene nel minor tempo possibile.
I miei occhi si spalancano un millesimo di secondo prima che un caldo getto bianco vada a schiantarsi contro la parete colorata dei miei fazzoletti “Tempo”.
Ed esattamente il millisecondo dopo mi sento male. Sento una morsa allo stomaco, come se non la volessi più. Provo un disagio spropositato nell’immaginarmi quell’esatto istante come autentico e reale. Qualcosa mi blocca, come se non la volessi davvero fino in fondo.
Alessandra non lo sa che la desidero ad intermittenza; che fantastico su di lei molte sere di giugno; che poi la ignoro e mi faccio schifo.
E allora mi convinco: Alessandra non lo deve sapere.
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