Alla fermata del bus
Io ho paura d’essere felice così come ho paura di essere ancora più infelice.
Alla base del ragionamento ci sta la meritocrazia affettiva: te lo meriti l’amore? Te la meriti la felicità? Saresti capace di sorridere? Ancora e nonostante tutto? Dopo tutto? Perché se pensi di non saper sorridere abbastanza bene, allora, lasciala a qualcun altro la felicità, qualcuno che sia fotogenico, qualcuno che sappia sorridere veramente, non come te con quegli occhi tristi. Nelle foto non vieni bene.
La metropolitana scura, il treno assordante che passa nelle stazioni, le luci come lampi - non vedi?
“Come? Non ti sento.”
La felicità sarebbe uno spreco nelle mie mani? E poi, le mie mani tesserebbero ancora le vecchie canzoni? Ripercorrerebbero quelle strade buie, ma così intimamente conosciute? E in quelle strade - mi chiedo - potrei incontrarti di nuovo e lasciarti perdere dentro? Potrei farcela a non morire? E a respirare col fiato corto mentre penso di morire? E mentre non penso, ma sento, potrei bere ancora i tuoi occhi coi miei? Mentre in quella strada così buia tu mi baci e mi tieni, potrei io stare di nuovo in quel tormento? Quel tormento che chiamo casa. E quella disperazione come potrei contenerla? Dove potrei infilarla?
Nelle tasche.
Nelle tasche tra le dita c’è tutta la tua disperazione. Anche la mia.
Mi volto e ti sistemi i capelli, allora te li sconvolgo di nuovo, ci tuffo dentro la mano, in mezzo a tutte quelle rose scomposte. E finiamo col parlare di fratture scomposte e del nostro strano lavoro che non si può dire, eppure quante ne abbiamo viste, e non so più se scopiamo per scopare o per sconfiggere la morte o per sfida contro il destino. O più semplicemente facciamo l’amore, ma non diciamolo a voce alta.
Ma adesso sono sola sulla strada. La strada di casa senza lampioni accesi, faccio per tornare, ma poi mi siedo alla fermata dell’autobus e aspetto.