Alture
Stanche di essere calpestate.
Stanche di essere trivellate
bucate con piloni di cemento
recise in petto per tutta la sua lunghezza
penetrate e infette
insozzate da uno spermatico andirivieni estraneo.
Stanche di essere palettate
di essere divise
di permettere ad altri di farci da magnaccia
di renderci le proprie puttane
facendo pagare dazio per essere usurpate.
Stanche di essere assordate
dal passaggio di volatili panciuti di metallo.
Stanche di essere soffocate
dalla cortina ustionante di ciò che ci passa addosso.
Stanche di sudare quest’acqua che non ci basta più.
Stanche di avere caldo.
Stanche di avere sete.
Stanche di avere fame.
Oggi non ha mai smesso di piovere.
Gonfiate siamo dal peso di questo fosco pianto.
Uomini ci passano traverso
il volto diviso a metà
in una bandiera spezzata
Si muovo rassegnati
Percepiamo la loro celata disperazione
Stanno superando il confine di una terra alla deriva
Sanno che sono soli
Sanno di non essere amati
Sanno che noi saremo ancora qua
quando il loro giorno verrà meno
Ma nessuno lo lascia trapelare
Nessuno parla
Perché sono
I non voluti nel paese in cui sono nati e cresciuti
I non voluti, sputati e insozzati nel paese in cui hanno scelto di vivere
I non voluti nel paese in cui prima o poi emigreranno
Perché nessun posto sarà più casa loro
Ma perseverano nello spasimo.
Finirà presto il tempo degli uomini
piagati dalla paura inflitta
Finirà il tempo della prevenzione
dalla propria progenie
Finirà il tempo delle opinioni
spese per coloro capaci solo di approfittare
Finirà il tempo del pesante perno
affondato nella nostra superficie
E solo noi saremo in grado di coglierlo.
Ancora piove
Ma non riusciamo a respirare
Recalcitranti in mezzo a questa bruma che si fa grossa.
Non vedendo i nostri simili
messe all’angolo
Noi prendiamo ad ascoltare
Una storpia litania.
Ancora piove mentre delimitano il nostro territorio
Esseri dalle vesti catarifrangenti
Tessono fili per comunicare
Stringono il cappio sotto pelle
Lasciano svergognate voragini aperte
Come supplici bocche disseccate.
Dove sono ora le mani che si riscaldavano affondando nel terreno bagnato
rendendolo fertile di frutti
rendendolo più forte e generoso
Dove sono gli alberi che accarezzavano le nostre profondità
abbeverandosi dei nostri umori
Dove sono i fiori
pronti a scandire il passaggio del tempo
a renderci guardinghe per il sole a venire
a ripararci dalla tempesta impietosa
a vestirci di pallide tinte
Dove sono le foglie che spennelavano il nostro dorso
di accoglienti colori
e si sacrificavano per il nostro nutrimento.
Urliamo per il dolore
Ma nessuno sta ascoltando
Nessuno vede che nelle profondità del nostro corpo
Un’altra altura si va sviluppando.
Cresce disarticolata
di pustole butterata
Assorbendo il sozzume che nel terreno filtra
Copulando con gli scarichi di abitazioni di ferro e cemento
Facendosi stuprare da escrescenze rugginose
Mescita di cariche virali e infezioni congenite.
Ma nessuno sta ascoltando.
Cancerosa altura
Cresce dentro noi
È parte di noi.
Fiamme ribollono
Liquido gelatinoso che trema
La piaga pronta a diffondere il suo male
Quando in superficie si vede solo
Un’altra regolare altura erta sopra il manto di nebbia
che ancora circonda la vallata.
Un’altura che si accascia sfiancata
stanca come le altre che la precedono.
Un fiume scorra alle sue pendici
irrorato dal sudore che gronda copioso
mentre il calore del peso che si porta addosso
massiccio evapora dal suo profilo.
È il respiro della spossatezza
È la chioma di condensa lattiginosa
che nell’ultimo atto la rende protagonista
non più ignorata dal passante preso da sé
non più sorvolata da un piatto punto di vista.
È il primo sintomo del male che cova all’interno.
L’altura esala solo quiete parole
Che ascendono al cielo e si fanno verso
Una preghiera sospesa a mezz’aria
Pronta a divenire pioggia
E rovesciarsi sul vano presente
Prima che ogni convinzione del tempo
Venga cancellata
Ma nessuno sta ascoltando.