1.
Amedeus prima di entrare in scena, dietro le quinte, si guarda attorno sospettoso, è nervoso, grondante sudore, si sta metaforicamente (e un pochino anche letteralmente) cagando addosso, sa che qualsiasi parola da lui pronunciata potrà essere usata contro di lui nel tribunale del pueblo.
Scende la scalinata, attimi di suspense inaudita, si sentono i respiri delle persone in prima fila, la tensione si taglia a fette, tutto sembra sospeso come in un sogno, quindi Amedeus vede Rula Jebreal in lontananza, ed è lì che decide di piazzarla all’angolino sotto la traversa, si avvicina il microfono alla bocca e la spara: “UN PO’ DI FIGA QUA?”. Novantadue minuti di applausi, esplosione di gioia collettiva, Fiorello ha un colpo apoplettico e muore sul palco, è il momento più alto della storia del Festival.
2.
Palco dell’Ariston, seconda serata del Festival della Canzone Italiana 2020, Amedeus prosegue eroicamente con la conduzione, frenetico e smanioso di fare bella figura, schivando una ad una - ad onor del vero con evidente fatica e rischiando più volte l’inciampo clamoroso, ma con altrettanto rara temerarietà - tutte le difficoltà semantico-filosofiche che gli si parano di fronte: doppi sensi a sfondo sessuale generati (in)volontariamente dalle sue ancelle, generi dei pronomi, scollature vertiginose che gli vengono schiaffate in faccia con la stessa frequenza con cui Fabio Fazio viene umiliato nella vita di tutti i giorni, insomma, generiche gaffes dovute ad una cultura patriarcale da cui Amedeus si sforza stoicamente di sbarazzarsi nel giro di breve tempo, sottoponendosi anche alla visione forzata in camerino, fra una pausa e l’altra - in una sorta di auto-imposta cura Ludovico -, di una serie di documentari femministi, eppure lo sa anche lui: è una situazione praticamente disperata.
Tutt’un tratto le luci dell’Ariston si spengono. Tutte. Amedeus non perde la calma e si confronta con gli autori e con il capo-elettricista, ma non ci sono risposte nell’immediato. Informa il pubblico astante che i tecnici si stanno occupando del problema e che entro breve tutto dovrebbe tornare alla normalità. Nel frattempo la platea è fiocamente illuminata dalle luci biancastre dei cellulari; pian piano un mormorio si alza sempre più forte dalle retrovie, non si capisce chi siano gli autori, ma il coro esplode in un istante: “FUORI LE TETTE, LEOTTA FUORI LE TETTE, FUORI LE TETTE!”. In un attimo è un inferno: tutto il pubblico, nascosto e protetto dal buio semi-totale, si aggrega al coro da stadio. Si sente un brusio nelle prime file, qualcuno pare alzarsi nella semi-oscurità e dirigersi verso il palco; la confusione è totale, quindi sono in pochi ad accorgersi di questi movimenti sospetti.
Dopo qualche minuto torna la luce; è accecante, tutte le lampade lampadine lampadari fari faretti e quant’altro si accendono di botto, in sincrono. Dopo qualche secondo di cecità, neanche il tempo di riabituarsi alla luce, il pubblico è esposto ad una visione spaventosa: la nonna della Leotta, ormai famosa in tutta Italia, è sul palco senza maglione, maglietta e reggipetto. I seni mostruosi e raggrinziti, ridotti a due prugne rinsecchite, fanno raccapricciante mostra di sé in mondovisione. A quel punto la folla, memore del commovente e per nulla retorico monologo di Diletta della sera precedente, inorridisce, e come nel più classico dei linciaggi terzomondisti, i docili e facoltosi borghesi delle prime file tirano fuori (da non si sa dove) dei grossi sassi e spontaneamente decidono di procedere alla lapidazione dell’anziana signora Leotta. Dopo dieci minuti di follia inarrestabile, la collera si placa. La nonna è dilaniata, i presenti si accorgono di aver leggermente esagerato e, come da copione comico, fischiettano facendo finta di niente e guardandosi attorno.
L’occhio di bue cerca e trova il volto di Diletta Leotta, che tremebonda annaspa per trovare le parole giuste che la toglierebbero dall’impaccio. Alla fine arrivano: “Eh vabè, che poi in realtà non era neanche veramente mia nonna”.
A questo punto parte un boato spontaneo da parte del pubblico, è una festa totale, risate e pacche sulle spalle, gaudio e una ritrovata fiducia nell’umanità. Amedeus tira un sospiro di sollievo, si riparte con lo show, vai Jack.
3.
Ormai il Festival della Canzone Italiana 2020 è in corso da due mesi. Siamo alla cinquantacinquesima serata, intorno alle tre di notte; Fiorello nel frattempo ha litigato con chiunque, anche con l’amico storico Amedeus, reo di non averlo sufficientemente protetto durante le ripetute e sistematiche offe(n)s(iv)e prossemico-verbali di Tiziano Ferro nei suoi (di Fiorello) confronti, in una lotta intestina ormai senza regole, fatta di veementi strali nei camerini e di sorrisi nervosi e di serratissimo battutismo passivo-aggressivo sul palco.
Nel mentre i Pinguini Tattici Nucleari, esausti e senza speranza né prospettive di poter rivedere i propri cari, si apprestano a montare per la quarantottesima volta la loro strumentazione indie pale ale sul palco dell’Ariston, in procinto di coverizzare Caledonia dei Cro-magnon (ESP-Disk, 1969) in un’innovativa versione indie-reggae-vaudeville-freejass-punkinglése con le vocine energiche, i completini sgargianti e le faccine simpatiche e pazzerielle, quando all’improvviso, poco dopo essere tornato dietro le quinte per darsi una sistemata e levarsi di culo dall’inquadratura, e anche per fare un salto al bagno - dopo cinquantacinque giorni in cui aveva dovuto, per esigenze sceniche e impegni con la stampa, trattenere qualsiasi necessità d’espletamento delle funzioni fisiologiche -, Amedeus torna correndo verso il palco lanciando urla belluine e piangendo a dirotto, spaesato e sconvolto. Il pubblico è interdetto, si interroga sulla sceneggiata in corso, c’è inquietudine e grande preoccupazione; in particolare Giovanna, la moglie del grande presentatore ravennate, sta tremando, percepisce che la messinscena non fa parte dello spettacolo, che c’è qualcosa che va oltre.
In un lampo Amedeus, completamente fuori di sé, si tira giù i pantaloni e le mutande svelando al pubblico uno scenario allucinante: è completamente piallato in mezzo alle gambe, è proprio privo degli organi genitali, c’è solo pelle liscia e morbida e setosa. In sala scoppia una grassa risata collettiva, e le prese per il culo del pubblico - ormai sensibilizzato all’estremo (quasi da rimanere anestetizzato rispetto qualsiasi altra questione) dopo cinque settimane di monologhi femministi che hanno sviscerato ogni possibile argomento attorno la lotta di genere, in qualsiasi salsa possibile ed immaginabile, arrivando perfino ad una lectio magistralis di quattro ore (più o meno a due settimane dall’inizio del festival) da parte di Giorgina Rodriguez sull’importanza di non darla agli uomini prima di aver ricevuto i bonifici per almeno tre quarti di mutuo sulla casa al mare - non tardano ad arrivare, e anche Giovanna, dopo un iniziale istante di smarrimento, capisce che è il momento di approfittarne dopo anni di soprusi e malcelate battutine sessiste (“brava Giovanna, brava...”, ogni volta che saliva sulla scaletta per acciuffare il frullatore sulla mensola alta in cucina).
In un attimo di lucidità estrema in cui in un batter d’occhi gli pare d’aver carpito il senso ultimo dell’Essere, Amedeus realizza, inorridito: in un parallelo grottesco con Il ritratto di Dorian Gray, mentre lui (Amedeus) sorrideva e diventava sempre più accondiscendente e gentile e incredibilmente galantuomo (senza secondi fini, con un’onestà estrema e impareggiabile) nei confronti delle donne, il proverbiale Piallamento Di Coglioni che provava ad ogni intervento di donne in difesa di altre donne si faceva letterale (secondo un patto col demonio che si era dimenticato d’aver firmato in un momento di follia assoluta, sfinito dalle critiche di pubblico e stampa), e pian piano, senza che se ne accorgesse, i tessuti del suo apparato riproduttivo venivano annientati, come nel più orrendo dei contrappassi danteschi.
Amedeus, ora completamente gender free, in un gesto estremo decide di farla finita sul palco, spargendosi addosso benzina, pronto a darsi fuoco. Viene salvato in extremis da Malgioglio che se lo porta a casa per insegnargli due o tre cosette con l’aiuto di un paio di pinze e una buona saldatrice. Da quel giorno non si sa più nulla di lui.