Ambra si era interessata per la prima volta al significato del suo nome quando a quattro anni e mezzo aveva imparato a scriverlo. Sua madre, però, una figlia dei fiori costretta in monotoni tailleur da quando aveva capito che a predicare la pace si finisce a fare la fame, non era riuscita a soddisfare le sue domande su una scelta così particolare.
A tredici anni, quindi, complici un sempre più accessibile motore di ricerca in grado di rispondere ad ogni quesito e la sua crescente curiosità, aveva speso un pomeriggio intero davanti al pc pur di trovare quell’informazione che cercava disperatamente da anni, voci correlate e Ambre celebri incluse.
Con suo sommo dispiacere aveva scoperto che l’ambra non era nient’altro che “una resina emessa da conifere”, cioè quella sostanza appiccicosa che ogni tanto, specie da più piccola, aveva notato sui tronchi degli alberi, toccandola incuriosita. Le speranze erano diminuite ancora leggendone gli usi industriali: collane, orecchini, bracciali, persino cannelli di pipe.
Nella sua ricerca compulsiva non le era sfuggito però come, nel Buddismo, l’ambra rappresentasse il settimo e ultimo tesoro, quello della saggezza.
Era già allora una ottima ed appassionata studentessa, metodica e riflessiva: quel “saggia” sembrava proprio calzarle a pennello. Essere saggia, per lei, non era mai stato un problema.
A cinque anni, qualche minuto dopo la fine di un tremendo litigio tra i suoi genitori in cui erano volati quelli che a lei erano sembrati paroloni e terribili offese e che invece erano semplici espressioni spazientite tipiche delle discussioni familiari, si era avvicinata quatta quatta alla sua dolce mamma dicendole di non preoccuparsi. Tutto si sarebbe risolto, quando papà la guardava si vedeva quanto le volesse bene.
A soli otto anni, invece, dopo aver scritto «I Consigli di Ambra» con una calligrafia per nulla tremolante su un piccolo pezzo di cartoncino arancione, aveva organizzato in un piccolo angolo del cortile la sua personale postazione di dispensatrice di consigli, ottimi si diceva.
All’Ambra tredicenne, prima della classe sin dalla prima elementare, divoratrice di romanzi, amica leale e sincera e paciere della maggior parte delle discussioni familiari, sembrava quindi piuttosto logico definirsi “saggia”, quasi come non potesse essere altrimenti.
Qualche riga più in basso, però, aveva trovato qualche accenno alle proprietà chimico-fisiche del suo nome – o, meglio, della pietra che esso rappresentava –, tra cui quella di elettrizzarsi, una capacità così rilevante da aver causato l’etimologia stessa della parola “elettricità” (“ambra” in greco, infatti, si traduce “elektron”). L’ambra era, quindi, capace di elettrizzare, “elettrizzante”. Finalmente, in quel pomeriggio degli albori della sua adolescenza, aveva visto per la prima volta la risposta che cercava.
Lei era Ambra, addirittura elettrizzante.
In realtà, per quanto quel aggettivo le piacesse, non le era per niente facile rispecchiarcisi a pieno. Nella sua vita, a quanto ricordasse, non c’erano mai stati momenti in cui si sarebbe definita elettrizzante, capace di provocare entusiasmo, eccitazione. Non era mai andata fuori dagli schemi, contro il volere dei suoi, contro il Sistema, controcorrente o semplicemente contro qualcosa. Aveva sempre scelto la strada spianata, la “pappa pronta” come rimbrottava sua nonna, mai una volta che avesse compiuto qualcosa di azzardato, di bizzarro, di innovativo. Era sempre stata saggia, mai elettrizzante.
Ci aveva provato quando, l’ultimo giorno di terzo superiore, con una gonna corta e colorata aveva volteggiato tra le risate nel parco di fronte al liceo, per sfuggire ai rituali scherzi e gavettoni di fine scuola. O ancora quando, dopo le prime lezioni frequentate al dipartimento di Giurisprudenza, aveva abbandonato tutto, iscrivendosi invece a Studi Orientali, con specializzazione in lingua araba, sognando di entrare negli scenari di cooperazione internazionale. Ma poi era sempre tornata sui suoi passi, alla sua saggezza a tratti paralizzante, smettendo di volteggiare non appena si era alzato il vento e aggiungendo alla laurea in Studi Orientali un master in Giurisprudenza, perché, in fondo, il suo sogno era proprio impossibile e, per il futuro savio e accorto che immaginava, il gioco non valeva la candela.
Questa frase, questi aggettivi che la accompagnavano da tutta la vita – quasi fossero, in linea con la loro derivazione parzialmente buddista, un vero e proprio mantra – erano diventati finalmente una sua descrizione veritiera in una mattinata come tutte le altre.
Aveva rimirato i suoi occhioni scuri sullo specchio del bagno, la sua linda camicetta stirata alla perfezione, i capelli che sembravano spettinati nonostante avesse appena finito di passare la spazzola con violenza tra le ciocche castane. Si era osservata attentamente ed era tornata con il pensiero a quel pomeriggio della sé tredicenne, seduta di fronte al computer cercando disperatamente di dare un senso alla sua vita.
Tredici anni e già alla ricerca di un qualcosa più grande di lei. Avrebbe capito, crescendo, che il mondo è fatto di risposte vuote, di interrogativi irrisolti, di incertezza e tante illusioni. Ma lei, in quel tedioso pomeriggio, una risposta l’aveva trovata, vera per metà. Aveva passato anni a cercare la parte mancante, quel aggettivo che avrebbe voluto, ma non sentiva suo. Poi, quella mattina, con l’alito sapore caffè e le occhiaie scure mascherate con un filo di correttore, lo aveva trovato. Eureka. Era lei, era lei il pezzo mancante di uno di quei puzzle da 5000 da incorniciare una volta finiti. Era lei il puzzle ed era in lei che risiedeva quel unico minuscolo pezzetto di cartone che le serviva per completare l’opera. Sarebbe stato difficile tirare fuori quel lato di sé che nascondeva a tutti da sempre, celato così bene da essere sconosciuto perfino a sé stessa. Ora, però, lo conosceva, sapeva dove fosse, cosa fare.
Voleva mostrarlo al mondo. Finalmente.
Perché era Ambra, saggia sì, ma elettrizzante.
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