4:00. La sveglia ti strilla nelle orecchie da sotto il cuscino, ti sei addormentato di nuovo con il telefono in mano. Hai dormito si e no tre ore, ma ora devi alzarti , se vuoi cercare di rispettare la routine che ti sei costruito.
Ore quattro in piedi, studi fino alle otto, poi prendi il sole, pranzi, pomeriggio spesa e perdi un po’ di tempo. È l’ unico modo che hai trovato per non impazzire.
Vedi mai che riesci addirittura a laurearti prima o poi, un completo fuoriprogramma ormai.
Accendi la luce e ti siedi al tavolo della cucina: fai spazio al libro di analisi vettoriale tra i piatti di ieri sera e imprechi perché questa casa fa schifo.
Un capitolo e cinque sigarette dopo ti alzi. Imprechi di nuovo perché da quando hai ricominciato a comprare il tabacco e le cartine, ogni volta che fai la doccia hai le mani troppo secche e non riesci a chiudere il drum se non dopo due tentativi falliti.
Nel frattempo un messaggio ti distrae, la stronza dice che ci sono state due cancellazioni in mattinata, oggi hai una sola lezione, alle sei. Quando hai iniziato a lavorare per lei, quattro anni fa, non facevi che ripetere a tuo padre che “ le ripetizioni sono una garanzia, è un settore che non muore mai, le scuole sono rimaste aperte persino in guerra, fidati pa’.”
Il tempo non solo ti ha smentito, ma sembra anche sghignazzare delle tue parole ora, con fare compiaciuto. Ma si sticazzi ,ti dici, è da quando vivi da solo che campi con cinquecento euro di sicurezza per eventuali danni al motorino, e molto spesso neanche quelli. I soldi in fin dei conti non ti preoccupano, in qualche modo te la sei sempre cavata.
All’una accendi il gas e metti a bollire l’ acqua per la pasta, alla fine stanotte sei riuscito a studiare, ti rendi conto che tutte quelle formule ti affascinano ancora, ma forse lo fai più per avere un obbiettivo, che non per vedere quel pezzo di carta.
Hai smesso di studiare non perché non fossi bravo, sei sempre stato il ragazzino brillante, quello carino e intelligente, che riusciva in tutto senza colpo ferire. Non lo sai neanche tu bene perché, a dirla tutta. Forse una parte di te non vuole vedere quel dannato pezzo di carta, quella corona d’ alloro, perché significherebbe dover congedare i tuoi vent’anni, significherebbe dover vendere questa casa, comprarne un’altra, ammobiliarla, scegliere persino l’aspirapolvere e le tende. O forse sono un mucchio di stronzate. Forse semplicemente non sei capace, forse farai questo lavoro di merda per tutta la vita. Che poi non ti fa neanche cosi schifo, voglio dire, oscilli tra la convinzione di stare una meraviglia, con gente che paga e non si presenta, gente mediamente simpatica, e l’oggettiva osservazione che la precarietà fa schifo, e che per quanto possa piacerti impugnare un megafono contro il sistema su un carro di drag queen al primo maggio, magari non potrai farlo proprio per tutta la vita.
Resoti conto dell’ennesimo vagheggiamento della tua testa, dell’ennesimo sillogismo inutile in cui hai buttato venti minuti a riflettere di problemi che tanto non potresti risolvere, ti fai un caffè e ti stendi a prendere il sole in balcone. In tempo zero però ecco che ci ricaschi: perché continui ad arrovellarti su cose che tanto non puoi risolvere? Sei bloccato in casa da due mesi, e con te lo è un paese intero, è inutile che ti affanni. Cerchi di soffocare l’aggrovigliarsi dei tuoi assurdi ragionamenti alzando il volume nelle cuffie. Non c’è nulla che i Dream Theater non possano mettere a tacere .
Il sole di una giornata innaturalmente calda, figlia di un aprile milanese che definire insolito pare ridicolo, ti piomba addosso serrandoti le palpebre in un sonno denso e pastoso come quello di un ragazzino stravolto da una giornata di corse e giochi. Dormi profondamente, e lentamente ti dissoci.
Ti pare di stare vivendo un’altra dimensione, un sogno tangibile, corporeo, assolutamente nitido.
Cammini nel vialetto che porta a al bar dove, intorno ai sei anni, prendevi il gelato dopo il bagno. Sei al mare, sei un bambino e sei felice. Hai in testa solo il cornetto algida che ti aspetta all’angolo, e già ti vedi infilare la testa nel frigorifero per cercare l’involucro azzurro e prendere quel freddo glaciale sulla faccia accaldata. Non c’è traccia in te del “lupo della steppa”, come ti aveva definito la tua ex, con una precisione spaventosa, in riferimento al protagonista dell’ omonimo libro di Hesse. Del dissidio perenne e lacerante tra uomo e “lupo”, tra il lato elegantemente interiore e quello schiettamente selvatico. Sei solo un bambino di un metro e quindici con i capelli pieni di sale e la sabbia appiccicata ovunque.
Continui a camminare con passo deciso, ormai sempre più vicino a quel cono pralinato che la tua mente di bambino anela con tanto fervore.
Un attimo dopo però, senza che tu sia in grado di capire come, in un batter d’occhio impercettibile, uno stormo di piccioni ti aggredisce: sono almeno una quindicina, grossi e scuri. Li senti sbattere agitati le ali uno addosso all’ altro, urtando inevitabilmente anche te. Senti le piume volare in giro, i becchi attaccarsi ai tuoi capelli e tirarti il collo della polo blu. Ti dimeni, vittima impotente di un attacco immotivato. Lo stormo però non si ferma, le bestie anzi aumentano, i loro versi si sovrappongono in un gracchiare continuo e assillante. Se solo non si trattasse di piccioni, potresti benissimo star vivendo la scena madre di un film di Hitchcock.
Ti svegli. Sudi, hai l’affanno. Cerchi il telefono, lo afferri e apri Google. Ti bastano pochi secondi ed è tutto più chiaro: “sognare piccioni, paura del contagio”.