Avere sogni grandi
Il mio compagno di banco della prima liceo era un matto.
Era arrivato in Italia dall'Albania all'inizio del 2000. I suoi genitori avevano rischiato il tutto per tutto, senza un lavoro e senza saper parlare una parola di italiano, alla ricerca di fortuna. Lo avevano fatto iscrivere al liceo storico della città, sperando in una sorta di riscatto sociale, o almeno in qualche forma di inclusione.
A quattordici anni era uno spilungone di quasi due metri, molto intelligente, ma senza un minimo di voglia di studiare, compensata da una determinazione davvero invidiabile nel giocare a calcio.
Ai tornei di calcio di istituto giocava come difensore centrale e lo chiamavamo "il Macellaio", perché si gettava a capofitto sulla palla con il solo scopo di raggiungerla e passarla avanti, senza prendere in considerazione cosa ci fosse in mezzo. Voleva fare quello nella vita, si vedeva e si vedeva che ci teneva parecchio. Purtroppo, la natura lo aveva fatto crescere troppo in fretta e lo aveva reso molto scoordinato. Aveva la fotta giusta, ma gli mancavano la tecnica e l'estro di un bravo calciatore. Basculava, cadeva, si faceva male, tirava delle sassate, delle mine, faceva delle entrate criminali, arrivando sempre a fine partita senza forze. A scuola, poi, era un disastro. "Intelligente, ma non si applica" dicevano ai suoi genitori, così me lo appiopparono come compagno di banco per diversi mesi, fino a quando non scoprirono che passavamo la maggior parte delle ore a giocare ad un videogioco sul suo telefono e ci separarono. Ma aveva una mente davvero brillante. Una volta, la nostra prof di fisica si arrabbiò terribilmente con lui, dicendogli che un ragazzo così intelligente non poteva permettersi di non studiare e sprecare il tempo in quel modo. Scoppiò una lite tremenda e lo sentii gridare contro qualcuno per la prima e ultima volta in vita mia. Le confessò che a lui di studiare non fotteva un cazzo e che voleva fare il calciatore, per cui si sarebbe impegnato solo in quello, perché "tanto magari domani muoio".
A fine anno lo bocciarono e non si fece più vedere. Negli anni successivi, ogni tanto qualcuno di noi lo incontrava in giro: stava bene, si era iscritto al tecnico e intanto si allenava. Aveva avuto una crescita qualitativa esponenziale con un ritardo impressionante rispetto ai tempi medi di un calciatore. Era avanzato di qualche categoria e sui giornali ne parlavano come di uno che avrebbe fatto strada.
Domenica mattina mi chiama un mio ex-compagno di classe. Mi chiede se sono solo e mi consiglia di sedermi. Mi dice che la sera prima lo aveva incontrato in discoteca dopo anni e che si erano accordati per fare una cena di classe tutti insieme. Poche ore dopo, uscendo dalla discoteca, una tizia completamente ubriaca lo aveva investito in auto, uccidendolo sul colpo.
Sono diversi mesi che non so come reagire. Ci penso e mi risuona nella testa quella frase "tanto magari domani muoio". Vorrei formulare un pensiero a riguardo, un'analisi profonda sulla morte, ma proprio non ci riesco. Non riesco a non rimanere basito e estremamente amareggiato per un evento del genere. Non riesco a concepire come sia possibile morire a vent'anni in un modo così assurdo e così all'improvviso. Non riesco a non pensare a lui sporco di fango alla fine del torneo di calcio di istituto che ride, incredulo, perché la sua squadra ha vinto. Non riesco a non pensare a lui che lancia il borsone a terra e tira pugni sul banco quella volta che non venne ammesso in prima categoria. Non riesco a non pensare a quanto siamo fragili, anche se non ce ne accorgiamo mai. Non riesco a non pensare, a distanza di anni, che abbia fatto davvero bene a fare sempre quello che voleva, fregandosene di tutto il resto. Non riesco, a questo punto, a non provare una profonda stima per il suo coraggio e la sua determinazione.