Bucolico
Le parole scorrevano veloci, la bocca si apriva e si chiudeva in un frastuono di frasi uguali ripetute all’infinito. Quando si aspettava che la discussione finisse lì in quel punto che prima si era stabilito fosse la conclusione, allora si incominciava da capo. La sofferenza per qualcuno, qualcosa, te stessa si rimargina solo se rivisto da mille occhi diversi in diverse fasi del giorno, delle settimane, dei mesi. Anche degli anni. Non si conta il tempo nella sofferenza. Si esce da quello che può somigliare a un modo nuovo di entrare nella vita e di entrare in un altro.
“È che mi sono stancata di fare le cose da sola. Le ho sempre fatte, ora mi sento solo una stupida.”
È normale ti dico. Il telefono gracchia, si sentono delle voci nel sottofondo, poi un grande silenzio. Tutto quello che stiamo facendo è stupido, non c’è niente di meno razionale nel dire una frase come: fai quello che ti fa stare bene.
Tante volte eviti di fare quello che fa stare bene perché la paura è che poi di nuovo ritorna il vuoto. O meglio, torna di inventarsi qualcosa di altro per un altro mondo. Peschi, apri, chiudi, ripeti.
Le mie parole volano basso, sotto quello che penso, sotto la tenerezza, la fragilità dell’anima che si porta dietro fardelli inconcepibili universalmente. In terrazza esplode un sole fortissimo, so che anche da lei è così, altrimenti non sarebbe fuori. La voce è scura, ma si capisce che i pensieri sono illuminati dal caldo di inizio estate.
I problemi degli altri mi hanno sempre affascinata nel modo più masochista possibile. Le rispondo con un nodo alla gola. Le dico che la valeriana e il magnesio aiutano l’equilibrio tra sonno e veglia. Una parentesi del mio cervello dice “Beh sì ma solo dopo due Rivotril.”
Lo tengo per me.
Nessuno passa mai per lo stesso punto di un altro, anche se è sangue del tuo sangue. Le persone si incontrano come tangenti ma non si intersecano. Vedo di tenerlo presente nella mia testa durante la telefonata. Mi sento come se mi fossi addormentata ubriaca dopo una serata fuori, ma accanto a mia madre.
Cerco di immedesimarmi, mentre le sue parole volano tra i chilometri, piene di preoccupazione e di ansia. So che quelle parole hanno mangiato tessuti connettivi, si sono insinuate tra i suoi organi che si stanno rattrappendo.
Vorrei che vedesse oltre le parole, oltre al fare quello che ci fa stare bene. Vorrei che le persone che amo diventassero subito luce, che il dolore sparisse, che i pensieri ciclici bruciassero come pioppini. Taccio, cerco di ascoltare, a volte il cuore sobbalza per il male che condivide. Non è vomitare addosso, cedere i problemi ma è una disperata ricerca di ascolto.
Mi rendo conto che fatica ad aprirsi, a fidarsi di me, nonostante il suo sangue sia il mio; e io sento che il mio ribolle al suo posto, mentre il suo lì, lontano, scivola sul marciapiede davanti alla panchina del parco dov’è seduta.
Cerco di immaginarmi la sua postura, dove volge il suo sguardo, come tiene le mani, se sta giocando con i fili delle cuffie, bagnate dalle lacrime che mi nasconde.
Mi ricordo anni fa, quando salivo quattro piani di scale in un’altra città e mi ripetevo “io sto bene” all’infinito, fino a che, arrivata al quarto piano con il fiato corto, ci credevo.
Tutto è un palliativo fino a che non si sente qualcosa che fa cambiare direzione al cervello, perché nessuno di noi è razionale e mai lo sarà, ognuno si è costruito il suo mondo e la verità non sta da nessuna parte.
Io la verità non so dargliela, vorrei ma è impossibile.
Mi saluta, nessuna parola di affetto.
“Ciao, ora vado a casa, magari mi compro un pezzo di focaccia per non farmi da mangiare. Mi viene da vomitare.”
Silenzio.