Caffè lungo in vetro
Non c'è nessuno. Metto su il Release Radar di Spotify per restare aggiornato sulle nuove uscite, il dovere me lo impone. Pulisco la casa e mi faccio la doccia. Non crederete mai a quanto possa essere bello il rumore dell'acqua che scende nello scarico della doccia dopo settimane in cui ci potevi far galleggiare il modellino del Titanic.
Esco per buttare la spazzatura, tutta la spazzatura di tutta la casa in una volta sola perché non mi va di lasciare le cose incomplete. Rabbia e tristezza fanno a braccio di ferro in continuazione e si annullano impedendomi di reagire. Sbaglio e butto la plastica nella carta, perdonatemi, non volevo, i colori mi hanno ingannato. Il cristo di coso per l'organico ha smesso di aprirsi da settimane così devo andare a quello in fondo alla strada. Mi sento già sporco.
Mi sono portato dietro L'Espresso, per avere una scusa per fare qualche passo in più in cerca di un posto dove leggerlo. È il numero della settimana prima, riesco a leggere L'Espresso sempre e solo il weekend successivo a quello in cui l'ho comprato. Non ho tempo, vorrei leggere, vorrei scrivere, ma non riesco. Quando ho tempo voglio solo dormire, e se non voglio dormire mi addormento comunque. Così provo a fare tutto nel weekend, pieno di polvere accumulata tra le fessure della porta e del viso, o raramente di notte se mi parte il flusso creativo, la scadenza imminente, o se il volo di una cimice interrompe i sogni in cui abbraccio persone con cui riesco a malapena a parlare.
Decido di andare in un bar che vedo sempre quando passo dalla stazione ma in cui non ero ancora mai entrato. Da fuori sembrava carino.
Lo è. Carino, spazioso, tranquillo, hanno i biscotti, forse ho trovato quel posto vicino casa dove andare a scrivere col mio Mac come fanno quelli lì. Non ho un Mac, ma posso far finta.
Vado a lavarmi le mani, ordino un caffè lungo e un biscotto. Di solito chiedo un caffè lungo in vetro ma non mi sentivo né in vena di troppe pretese né in vena di fare quello che sa cosa vuole. Perché non so un cazzo. Più sei sicuro e preciso in ciò che chiedi e meno sai davvero cosa vuoi. Lo fai solo per mascherare le tue continue esitazioni su tutto.
Io manco lo volevo il caffè.
Renzi ha lasciato il PD e chiama mia madre. Mi chiama sempre meno ormai, anni fa siam partiti che mi chiamava due volte al giorno, poi una, poi un giorno sì e uno no. Ora lo fa una volta a settimana. Ci diciamo le stesse cose che ci dicevamo anni fa quando mi chiamava due volte al giorno. Cioè niente. Come quando, tornato da scuola, mi chiedevano che avete fatto oggi.
Va come al solito. Hai ancora copie del tuo primo libro? Tuo padre vuole regalarne una a un amico.
No.
I clan mafiosi di Roma e chiama mio padre. Non mi chiama mai, non l'ha mai fatto, né quando avevo 18 anni e non sapevo che fare della mia vita né ora che ho 28 anni e non so che fare della mia vita ma pulisco la casa, butto la spazzatura e leggo L'Espresso. In compenso qualche giorno fa mi ha mandato una mail, è un fan di Kafka. Naturalmente non vi dirò cosa c'era scritto, ma la morale era che non voleva che lasciassi sfuggire la mia vita come lui stava facendo con la sua. Giusto, dopotutto la vita non è lunga, soprattutto non è in vetro. Ma è tutto molto più complicato, diverso e profondo di ciò che è possibile scrivere via mail. Non ho risposto.
Va come al solito. Forse tua madre te l'ha detto, hai ancore copie del tuo primo libro? Devo regalarne una a un amico.
No.
Esco dal bar che c'è il tramonto, o il crepuscolo se vogliamo, è una parola che non uso mai ma che mi piace un sacco.
C'è un crepuscolo molto figo e c'è la nuova monorotaia già pronta da tempo ma ancora mai inaugurata che si impone sullo scenario e si va a perdere in questo violaceo nulla e ci fai una foto.
Intanto penso a tutto ciò che sto scrivendo ora, come la voce interiore del protagonista di un film che racconta tutto ciò che non si vede in scena.
Penso a ciò che sto scrivendo ora e penso allo schermo del mio cellulare, rotto dopo essermi caduto mentre facevo un meme con Paperino.
Vado a prelevare che devo comprare il CityPass per la settimana entrante. Ogni mattina prendo il 21 e siamo così tanti in così poco spazio che riesco a percepire i pensieri degli altri: nessuno vuole andare nel posto in cui sta andando. Tengo la testa sopra i capelli che mi vanno sulla faccia per rubare un poco d'aria rimasta, come i delfini che escono dalla superficie del mare di un acquario per fare il pieno d'aria e dirci che moriremo tutti. Esco che si è fatto tutto più buio nonostante siano passati solo due minuti, domani forse ci torno in quel bar, finisco di leggere L'Espresso e ordino un caffè lungo.
In vetro.