Caro te,
non so chi tu sia e non riesco a definirti. O forse, sai, semplicemente non lo voglio fare. Mi piace l’idea di poterti parlare come se non fossi veramente una persona, né una cosa.
Ti guardo con gli occhi stanchi di chi non riesce a prendere sonno da settimane e ti dico: sei sicuro di te? Di quello che sei diventato?
A volte mi chiedo cosa tu voglia fare della tua vita. Ricambi lo sguardo con un’espressione gonfia di lacrime trattenute e mi parli di cose non serie, come tu e solo tu sai fare.
Da grande voglio essere diverso, ti ripeti noncurante del fatto che tu, grande, non lo diventerai mai. Perché alla fine lo sai, ti diverti a scambiare i sogni con la realtà, i giorni con la notte, gli obblighi con le possibilità.
Il tuo gesticolare mentre ti racconti ti dà come la sicurezza di concretizzare le tue parole in fatti; speri di poter agire come vorresti quando sei sicuro che le cose vadano fatte in certo modo – ma non ci riesci mai. Sei bravissimo a fermarti, a fare un passo indietro, come quando il semaforo da verde diventa giallo e di colpo ti blocchi. E quindi dimmi, ti intimorisce sentire il rumore dell’automobile che parte?
Non conosco le tue regole; mi piace pensare che fra le mille cianfrusaglie e la polvere sui tuoi scaffali ci sia un piccolo scrigno di verità che hai accumulato negli anni, o magari di brevi sentenze create da te – e per te. Tu sei imputato, avvocato e giudice. Commetti il reato, ti accusi e ti prescrivi una pena sempre più dolorosa del necessario. So che mi vorresti urlare contro, ripeti, ma non pensare che io non l’abbia già fatto abbastanza.
Io con te non faccio che supposizioni: non ti conosco, poiché non ti fai conoscere. Ti chiudi nel tuo guscio e non c’è modo di scoprirti, non c’è modo di entrare. Hai chiuso le porte, hai inghiottito la chiave e annegato il suo duplicato. Nella bolla in cui vivi tu non c’è posto per nessun altro.
Tratti con una cura a dir poco emblematica tutto quello che ti riguarda, come ad abbozzare un forte istinto di megalomania. Te lo dico sempre: gli astri non sbagliano e allora ti approfitti a giocare con i tuoi pianeti come se loro potessero davvero giustificare il tuo non-essere.
Tu lo sai cos’è la sincronicità? Forse di Jung non ti ho mai parlato e me ne dispiaccio, forse avresti potuto apprezzare il modo in cui riconosce la realtà e, forse, avresti capito come il corso dei nostri miserabili eventi non sia legato da un principio di causalità.
Ti osservo mentre lentamente bevi una birra dopo aver percorso un intero oceano di fatiche, fino agli scogli, fino alla riva successiva. Ho le spalle larghe, affermi quasi dispiaciuto. Sarà forse perché hai passato tutto questo tempo a nuotare in mare?
Sai, mi ritrovo dispersa in un corpo che non sono io e che, di certo, non mi appartiene. Più mi guardo, più sono te, con tutte le contraddizioni del caso: ho improvvisamente uno stupido senso dell’umorismo e una rabbia che mai ho avuto il coraggio di possedere.
Mi crogiolo nel tepore di un tuo sospiro quando al telefono non sai più cosa dire, allora inizia a parlare la pioggia che picchia forte sul piazzale della stazione. Ti ho chiesto di non attraversare la mia zona rossa, eppure ti sento spostare le transenne che mi separano dagli altri. Sei la mia Genova, anche se hai imparato ad odiarla.
Ti vedo nel quadro di una tigre e in una vignetta con scritto ho qualcosa da dirti.
Ti sento nella silenziosa stella cadente che muore sopra le nostre teste.
Quando sogno di scappare mi dici vuol dire che sei insicura. Eppure io sognavo di scappare da te. Ed era la mia unica certezza.
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