- Bergamo? Dov’è?
Credo di aver risposto a questa domanda in almeno quattro lingue diverse. Anche in italiano, naturalmente. Mi è sempre sembrata legittima, forse per il mio scarso campanilismo, diretta conseguenza di un inesistente spirito patriottico. Del resto, è una città piccola e mi piace raccontare di lei ad ogni latitudine.
La didascalia scritta a pennarello sulla polaroid dice “bella come le certezze”. Ora che ci ripenso, capisco che non avrei potuto scrivere niente di più giusto. L’ho scattata qualche mese fa nella piazza del borgo vecchio e da quel giorno è il mio segnalibro. Era domenica e faceva freddo, non c’erano nemmeno i turisti e gli abeti avevano ancora le luci natalizie. Non doveva essere tanto tardi nella sera perché dalle grandi vetrate del teatro uscivano le note della replica pomeridiana, ma era già buio. Tutto mi sembrava così semplice, così normale. M’era venuto di scrivere così sotto la foto, senza pensarci troppo, mentre Pau mi parlava di progetti per il futuro in quella piazza solo per noi.
- Quanto pensi di restare?
- Non so, mi piace qui. Devo trovarmi un maestro di chitarra flamenco.
- Saresti l’unico scemo spagnolo che viene a Bergamo per specializzarsi in questo.
- Dici che dovrei fare il muratore bergamasco?
- Ah! Divertente.
- Che importa? La musica è mescolanza, no? Immagina che bellezza sarebbe sentire un poco de flamenco in questa piazza deserta ora!
- Ma abbiamo la lirica, senti! Non ti emoziona?
Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto, seduti sulle panche in pietra sotto i portici, osservando la discreta maestosità della basilica in quel clima surreale. Bergamo è romantica, di una bellezza insicura, cresciuta un po’ all’ombra tra l’arroganza milanese e la vanità veneta. È casa accogliente a cui tornano anche quelli come me, che qui non ci sanno stare mai troppo a lungo. Un po’ scontata, che quasi te la dimentichi. È rifugio intimo per gli amanti della musica classica, eruditi poeti nostalgici di tutto il mondo. Bergamo non t’arruffa le budella, non t’innamora con un colpo di fulmine, ma ti fa sentire capito, anche se poi te lo scordi e vai a cercare ananas dall’altra parte del mondo. Non importa se ci sei nato o se ti ha accolto, se ti ha abbracciato, prima o poi ci tornerai e Bergamo lo sa.
Ascolto le notizie travolta dalla tristezza: numeri, morti, statistiche. Mi scoppia la testa e mi mette a disagio sentir parlare di questa città con tanta retorica lievemente stucchevole e pietosa, tipicamente italiana. Sarà che son bergamasca, direbbero da fuori, e “I bergamaschi son così, un po’ tonti”, legge il giornalista, trattenendo le lacrime. Il disappunto mi fa alzare il sopracciglio in una smorfia incontrollata, lancio il telefono sulla coperta stesa sul prato.
Son giorni cupi, in cui la morte danza sulle strade deserte senza aver paura della luce del sole. Anche oggi, che è il primo giorno di primavera e il caldo mi scalda la faccia indurita come i miei sentimenti. Quando sei tu a soffrire, non vedi che te stesso, ma stare a guardare il dolore degli altri è tremendo, ti divora dentro a colpi di impotenza. Allungo le gambe, muovo i piedi per sentire il pizzico dell’erba sulla pelle. Mi mancano i corpi, gli sguardi, mi sento un fantoccio senza anima, l’omino di latta senza cuore del Mago di Oz. Schiaccio le cuffie nelle orecchie per allontanare il suono delle sirene che passano ogni cinque minuti. Aquellos ojos verdes/serenos como un lago. “Che fortuna vivere in mezzo ai campi, se guardo avanti ho un oceano di margherite e forse un po’ mi basta”, penso.
Corri dietro alla vita senza riuscire a starne al passo, ti dicono che devi trovare te stesso, vincere tutte le tue paure, poi ti fermi e ti accorgi che ti conosci da sempre e quello che vuoi è soltanto un altro abbraccio.
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