Case
Sempre le stesse case mi tornano alla mente.
I palazzi popolari abbattuti, abitati da nordafricani
e usati come strumento di una propaganda
cementata con la paura
E noi preadolescenti, un piede a terra e
l’altro sul pedale della bici
A guardare ammirati le promesse
del sindaco nel loro manifestarsi.
I condomìni di otto piani
isolati dal resto del paese, a nord ovest, dove
ancora oggi vengono stipati nuclei
famigliari a due cifre per appartamento.
Le pareti spaccate, le tubature guaste
suppuranti mucillagine.
E gli abitanti di Caravazo a girare alla larga, guardinghi,
nella speranza di non averci mai nulla a che fare.
La casa del Fascio, sulla cui facciata spicca l’Aquila Romana
e sul lato ovest reca la scritta “Nel segno del
littorio abbiamo vinto/ Nel segno del littorio
vinceremo”, un tempo è stato il rifugio
dei pochi derelitti e drogati della cittadina, ora
invece, è deserta
calcinacci ne contornano il parcheggio che vi sta
di fronte, mentre i gatti utilizzano gli squarci
delle vecchie finestre per trovare riparo quando
il tempo si fa avverso.
Qualcuno ha marchiato la facciata
con la scritta “Fasci appesi”
una croce celtica stilizzata dondola dal cappio.
Poi vi sono:
la casa abbandonata in cui ho sempre
sognato di abitare, ora ristrutturata e
inaugurata come albergo ristorante.
La scuola elementare ovvero il castello di Caravazo
dai corridoi alti e ampi, su cui ci si lanciava in scivolata
rendendo i pantaloni lucidi all’altezza delle ginocchia.
L’edificio delle medie Mastri C-rava-in, con le lettere staccate
dell’insegna all’esterno, le finestre scollate e
più di un centinaio di ragazzini che in questo momento
stanno per perdere la fede nel genere umano, mentre
gruppi di gregari rimandati, i più per far impressione
sui ragazzi più grandi, stanno pestando un pubescente
il cui unico errore è stato quello di camminare a testa bassa.
E alla fine di questo miserabile e didascalico tour
La casa della mia infanzia, ma senza più l’orto di mio nonno
o l’altalena sotto il tiglio, abbattuto anche quello.
Niente più ampio balcone, ma una vetrata riflettente che
nasconde un solarium.
Finiti i tempi della piscina gonfiabile all’aperto, dei giri
con la macchina a pedali inseguito da mia nonna,
delle urla straziate di mio zio al piano di sotto.
Ma lì, da qualche parte al piano superiore, se provi a grattare
la pittura secca dalle pareti, potresti trovare
un residuo di me.
Il mio nome
come unica testimonianza
del fatto che sono vissuto.