Charlie Brown
Da piccolo credevo che tutti i maschi avessero il cognome di mio padre e tutte le femmine quello di mia madre. Mi sembrava logico, a cosa potevano servire i cognomi se no?
Non riuscivo a dire la parola amore, mi bloccavo, mi vergognavo solo a pronunciarla, come fosse una parolaccia. Le parolacce invece le dicevo, ma credevo fossero semplici esclamazioni. Andavo ancora all’asilo quando mi nascosi sotto al banco perché in classe era entrata la bambina che mi piaceva. Non sono uscito da lì sotto finché non se ne è andata, nonostante tutti mi avessero visto, lei compresa. Un’altra volta tirai uno schiaffo a un bambino mentre mangiava tranquillo la merenda, solo perché giorni prima mi aveva dato fastidio.
Ricordo la disposizione delle stanze di ogni casa in cui ho vissuto e gli incubi che facevo al loro interno, la scuola che, in un modo affettuoso quanto impotente, osservava ogni giorno il modo in cui ero fatto, il parco che sviluppava ogni storia così da renderla indimenticabile e le strade piene di ciottoli e di terrazzi percorse centinaia di volte, di province padane o di mari che si incontrano lì dove il ponte gira per vedere meglio il fumo uscire da gigantesche sigarette MS.
Ho sputato dell’acqua addosso a un ragazzo più grande perché lo avevo visto fare con un suo amico. Mi ha inseguito e mi ha picchiato.
Guardavo lucertole correre senza coda per sfuggire a future entomologhe di cui ero innamorato ma volate oltre oceano e ricomparse anni dopo nei tag di una vecchia foto.
Son sempre rimasto in panchina in attesa che il pallone uscisse così da chiedere di poter giocare senza dover alzare la voce. La voce è diventata sempre più bassa nonostante giocassi sempre di più, aumentava la paura di non piacere, la paura di essere sbagliato per dei respiri troppo diversi rispetto a ciò a cui si era abituati. Così iniziai a respirare il meno possibile.
Una paura più stronza di quella del non piacere è quella del piacere e non sapere che fare. Non sei abituato, non sai come comportarti e temi le conseguenze. Così iniziai a piacere il meno possibile.
Penso a quel primo addio ancora senza spiegazione, impresso nella mia mente come l’ultima scena di un film neorealista, con tre bambini, seduti su una panchina di pietra, che si regalano dei giocattoli per non doversi abbracciare un'ultima volta.
Una continua infelicità permeava l’aria inodore e incolore, come gas che ti uccide nel sonno senza accorgertene. Il gas del voler cambiare casa, lavoro, vita, fino a quando non hai più le forze per provare a cambiare e ti rendi conto che ogni tentativo ha solo peggiorato le cose. Ma hai ormai passato il testimone dell'instabilità e il ciclo continua.
Ottenere gli attesi cambiamenti e non cambiare affatto. Dire sempre più spesso addio per evitare il momento in cui non ci sarebbe più bisogno di pensare a come salutarsi. Tornare indietro, ripercorrere quei luoghi come fantasmi del Natale passato. Dire “io ce l’ho messa tutta, non potevo fare altro” e iniziare l’ennesimo libro di cui salterai intere pagine così da finirlo prima.
La prima volta eravamo ubriachi e non ci si piaceva davvero ed è durato una notte, la seconda ci si piaceva davvero ma ho chiuso perché stava durando più di una notte. Nel mezzo c’è stato il primo grande arrendersi, bagnato da un drink più utile a pulire che a dissetare. Non sono mai andato bene in chimica. Il prof arrivò perfino a farmi sbrattare, ed è difficile quasi quanto far sbrattare il Papa. Non mi interrogò più, ma arrivò un’automatica e perenne sufficienza. A saperlo prima.
Farlo tra le stradine in pieno inverno, nelle mie ansie è più forte di quando mi rubarono il catering per le band ma meno forte di ciò che non è mai successo.
Tra Napoli e Milano ho dato il meglio e ora sembra essere finito tutto come un 3, 2, 1 che esplode e ti fa tornare a un silenzio peggiore di quello che c’era prima di iniziare a contare. Non le ho mai riscritto e mi chiedo se davvero non abbia paura di essere felice Charlie Brown. C’è un corno blu chiuso in un cassetto e tante valigie chiuse a memoria e aperte senza entusiasmo. Tornare a casa o lasciarla non fa effetto. Alcool, cibo e Crash Team Racing mi tengono a galla e Joe Pesci dice addio col sorriso sparendo dietro una porta.
“Capisco ma questo va bene oltre il mio lavoro di venditore di mobili. Quindi se non deve comprare quel divano la prego di alzarsi e uscire dal mio negozio.”