Città mia
Erano le nove di una mattina umida e fresca. Si era alzata presto, prestissimo. La colazione a base di biscotti e caffè latte, una sigaretta in terrazza guardando il sole pallido.
Si vestì con calma e scese a prendere la biciletta. Dietro il sapore del dentifricio percepiva ancora il gusto dei biscotti mescolato a quello del trinciato.
Era un comune giorno feriale, per cui a quell’ora c’erano poche persone per le strade e il traffico delle sette di mattina era ormai sparito avvolto dal pallore del sole sorto da poco.
Inforcò la bici e si diresse quasi volando verso il parco più grande della città: grande, imponente, dove l’acqua incontrava piccoli boschetti e tane di conigli. L’erba brillante luccicava vanitosa di verde umido dalla rugiada.
Lasciava che il vento le colpisse la faccia, i capelli vibravano nell’aria, lunghi e scuri, con quelle sfumature rossicce che li rischiaravano. Il corpo esile dondolava sulla sella lungo la strada piena di buche nel cemento vecchio e arido.
Arrivata al parco, assicurò la bicicletta alla rastrelliera di fianco all’ingresso principale; prese le sue cose dal cestino: una grande borsa di tela in cui ci si perdeva dentro. Si incamminò verso il boschetto all’estremità opposta del parco, che si apriva con grandi alberi di more. Tagliò il tragitto attraverso il grande prato verde, assaporando la consistenza dell’erba sotto le suole delle scarpe, le caviglie bagnate dall’umidità del terreno.
Non sentiva di appartenere più a nessun tempo e nessuno spazio, la realizzazione le venne come un’epifania. La sua ragione sociale di vivere era ridotta al minimo. Percepiva attorno a sé un alone di inutilità, che elogiava e allo stesso tempo piangeva. Si trovava sempre di fronte il suo stesso viso, come un fantasma, a ricordarle i vani sforzi che aveva compiuto, a ricordarle che un posto obbligato nel mondo lei non ce l’aveva. Scoprì che non lo desiderava nemmeno, un posto numerato in platea, in un teatro che potesse rappresentare il suo passato, il presente e il futuro. Niente applausi, solo silenzio.
Niente occhi addosso, era diventata invisibile. Per sé e per gli altri non aveva compromessi, marcivano in una scatola umida sotto il letto, la puzza si mischiava al vizio del fumo.
Ciò che poteva e riteneva di aver raggiunto, lo aveva perso.
Si inoltrò appena all’inizio del boschetto, in modo che il sole potesse accarezzarle il pallore della pelle tra le fronde del leccio alla base del quale si era seduta, stringendosi le ginocchia al petto. Tirò fuori dalla grande borsa ancora macchiata, il libro che stava leggendo. Non importa il titolo, l’importante è che lei si identificava nella confusione di quella storia, in un racconto lungo convulso ritmato e stonato, eppure, per quello che valeva, l’autore aveva vinto il Nobel.
Passarono all’incirca un paio di ore, forse tre, difficile a dirsi. Il sole faceva nascondino con le nuvole e dopo una certa ora aveva cominciato a bistrattare il suolo erboso brulicante di vita.
Chiuse gli occhi e si adagiò sul tronco dell’albero lasciando che i giochi di luce disturbassero i suoi occhi chiusi.
Vedeva degli enormi cavalli, lei stringeva la piccola mano a quella del nonno. Erano cavalli giganteschi, lei cosi piccola non arrivava nemmeno al loro ginocchio. I ragazzi che cavalcavano sorridevano e ringraziavano il vecchio per il giro tra i colli. L’eleganza di quelle bestie riaffiorava dalla sua memoria così vividamente che sembrava fossero lì davanti a lei, e che lei tenesse ancora la mano del nonno. Piccola e impaurita dalla grandezza.
Le prudevano le mani e il collo. Ora annaspava nell’acqua cercava tra la melma resti di bottiglie rotte da vendere al mercato trasformate in collanine. Litigava con gli altri venditori, con gli altri cercatori di vetri nel mare. Si azzuffavano sotto l’acqua e più di una volta qualcuno aveva rischiato di lasciarci la pelle per mezza libbra. L’acqua non era amica. Era solo un incubo melmoso in cui c’era la possibilità di poterci morire, di venire uccisa e di cessare di lottare per la sopravvivenza in quella misera isola del Caribe.
Correva in bicicletta e cadeva, le ginocchia sempre più gonfie, i gomiti sanguinanti. Il sole le accecava lo sguardo e la notte le provocava il freddo più umido che le chiudeva lo stomaco e la faceva vomitare sui cigli della strada. Contava i buchi e le ferite. Non chiedeva aiuto. Non c’era nessuno che potesse offrigliene in quella tetra città che avrebbe sempre voluto abbandonare a tutti i costi, ma che ogni volta la attirava a sé. Quel profumo di mare misto alla campagna, gli occhi indifferenti delle persone, i coetanei vuoti e privi di qualsiasi sprazzo di ragione. Avidi di vivere il vuoto che li circondava, sempre più annoiati, vacui e senza senso.
Che schifo.
Quante volte aveva cambiato posti e quante altre volte era tornata indietro.
Era in una fabbrica di pastiglie. Doveva controllare il numero di vasetti di integratori che uscivano dalla macchina e portarli all’etichettatrice. Fuori era il deserto. La sera all’uscita dalla fabbrica, le luci della grande città arrivavano nel bagliore di una promessa di qualcosa di certo. La sera si tagliava i polpastrelli con un coltello, riempiva le ferite di cotone e camminava per pub. A volte le capitava di andare oltre con qualcuno o qualcuna, ma non aveva nessuna importanza. A volte cantava sui bordi delle grandi avenue accompagnata da una chitarra, la chioma di capelli fungeva da buon appiglio per le monete che cadevano nel sacchetto ai suoi piedi.
E ancora le grandi montagne e le guide alle orde di turisti ignoranti nelle calli della laguna. Le spezzettate incertezze che arrivavano da una bastonata certa alla sua dignità di volere imparare il mestiere dei suoi sogni. Non imparerai mai, perché io solo posso sapere, e quindi ti sputo in faccia ogni volta che posso.
Rabbia, impotenza. Una serie di fallimenti a puntate e stagioni. Sussurri alle spalle, invidia e rimproveri.
Il suo cuore rimaneva rosso, era macchiato indelebilmente. Lo portava nel petto con fierezza. Quante volte aveva abbassato la testa, anche per scappare al rischio di morire.
Aprì gli occhi, la fronte imperlata di sudore. Sprazzi di vite rifiutate.
Il sole illuminava il parco di una luce eterea e dorata. In mezzo alle fronde scorse una figura a lei familiare. Non si muoveva e la fissava negli occhi. Se voltava la testa, si sentiva il suo sguardo addosso.
-Ei chi sei, mi sembri famigliare, smettila di fissarmi.
Sono te. Non mi riconosci? O forse ti sei dimenticata… Sono venuta a ricordarti chi sei, o chi eri. Volevo vedere se sei ancora qualcosa. Guarda le tue mani.
Lei si guardò immediatamente le mani, atterrita. Erano rosse e grondavano di un liquido scuro. Puzzava di sangue.
È tutto il sangue che hai tolto agli altri, è il sangue che ti è sempre mancato per essere davvero qualcosa. Invece sei solo una massa informe che crede ancora ci sia qualcosa in cui credere. Mi hai ammazzato, e lo hai perpetrato per molte vite.
Cacciò un grido, ma la sua gola non emise nessun suono. si prese il volto con le mani. Gocciolavano ancora copiosamente come un rubinetto. Faceva fatica a vedere attraverso gli occhi impiastricciati.
Sono tutti i tuoi fallimenti e le tue lotte. Sono venuta a ricordarti che ormai sei rimasta solo tu. Quello è anche il sangue dei tuoi genitori, che hai ripudiato e che ora sono morti. Quello è il sangue di tutte le persone con lo sguardo vacuo, di tutte quelle che non ti hanno aiutato a risalire sulla bici. È il sangue delle persone che ti lanciavano le monete per strada.
È il sangue di quelli che chiamavi amici.
Si strinse le ginocchia al petto e cominciò a singhiozzare. Non emetteva nessun suono. non riusciva ad alzarsi. La figura uguale a lei si confondeva con le fronde degli alberi, in piedi, candida. La vedeva attraverso i capelli, il sangue. Lo stesso sguardo. Stringeva con forza un cuore pulsante tra le mani. Il candore si tingeva di rosso e il suo viso stava svanendo tra la bruma del bosco nella sera.
Penso quello che pensi tu. Penso che sia ora di dire di no. Ti lascerò urlare una volta, lo faremo insieme. Ma non meriti ancora di pensare di non poter credere più.
Urlò.
Chiuse gli occhi per l’ultima volta.