Come gesto di ribellione e sommossa
Chiudo gli occhi, stesa all’ombra dei primi giorni di luglio, da sempre mese di ritorni e stravolgimenti interiori che ci scoppiano tra le mani; del cielo sotto le unghie, del mare dentro la bocca e dei miei sorrisi che – pianissimo – stanno.
Il sole infuoca l’arena intorno ai nostri piedi. Nelle narici, s’infila prepotente l’odore salmastro di tutto quello che è stato prima di noi: dei grandi eroi e delle fertili puerpere, delle navi e delle sirene, di Circe e Polifemo, sozzi di latte cagliato e sangue lungo i bordi limacciosi delle labbra.
Sento il vento muoversi lento, caldo, dentro una luce che sotto le mie palpebre assomiglia al colore dell’oro. Non apro gli occhi, ma sento le tue braccia troppo distanti dalle mie.
Con un gesto impercettibile ti cerco dentro tutti i giochi d’ombra e luce, dentro i pieni e dentro i vuoti, dentro tutti gli aneliti liliali che incontro.
«Mi fai venire voglia di percorrerti le vene dei polsi».
Poco più in là, sotto qualche metro cubo d’acqua, l’azzurro davanti ai miei occhi non è più un colore ma un’esclamazione, un fascio di luce che – intermittente - inizia a trascinarci senza meta in un altrove sconfinato e renitente, sicuramente poco nitido per chiunque non abbia il nostro stesso sguardo. Mi dispiace solo non sapervelo spiegare.
Mi chiedo di cos’avrei bisogno per sentirmi contenta. Domanda che sono abituata a pormi con cadenza regolare. Alla fine, senza troppi vocativi, qualcuno riesce ad ascoltare i miei silenti desideri e me ne rendo conto dalle mani che riescono ad incastrarsi perfettamente alle tue, come in quel gioco di legno in cui la barca se ne sta nella sagoma della barca, la nuvola della nuvola.
Trovo il mio nitore, il mio splendido conforto, dentro una voce che diventa destinazione, dentro un letto sgualcito che ha lo stesso colore delle onde e dentro il quale ho imparato a non contare, a sentirmi bella pure piena di tormenti, a non stare più bene da sola, a scavare così a fondo da finire dall’altra parte, ad arrendermi.
Imparo ogni giorno dai gesti lenti e impercettibili che fai e di cui non ti accorgi, da abitudini familiari e radicate, dalla maniera di riporre le posate dentro il cestino affianco al lavabo e da quella che hai di guidare, di mangiare, di lavarti e poi alienarti, dalla voce che hai quando non vuoi andartene via.
E quanto è bello togliersi gli occhiali nel mezzo di un bacio, come gesto di resa.
«In origine, tutti gli esseri umani nascevano androgini. Deformi, con quattro braccia e quattro gambe. Bellissimi. Il feroce Zeus, invidioso del loro sublime aspetto e della loro divina forza, subito decise di reciderli a metà, di dividerli per sempre. Improvvisamente, tutti i mortali si trovarono così a girovagare, perduti, verso l’estenuante ricerca della propria metà abbandonata, verso qualcuno cioè capace di incastrarsi perfettamente, di coincidervi. Ancora oggi, quando le due metà originarie s’incontrano, può ammirarsi lo spettacolo d’arte varia della loro languida danza; quando s’abbracciano per poi avvinghiarsi come le radici degli alberi, ecco che ritornano – finalmente- ad essere Uno.»
Dopo una lunghissima pausa spesa ad osservare quante braccia e quante gambe possiamo contarci, mi chiedi perché ho sempre premura di raccontarti queste storie antiche, sicuramente poco vere, cucite con soppunto sartoriale volto a spiegare quello che spiegazione non ha. Rispondo che prima d’incontrarti ho imparato a vivere con il mirino puntato in fronte, che ci sono istanti piccolissimi che bisogna lasciar fiorire, che finora ho collezionato solo condanne; a volte è meglio sentirsi sazi di storie che digiuni, che un giorno potremmo averne bisogno per sentirci bene, forse addirittura migliori, mentre fradici e monolitici aspettiamo alla fermata un tram che non arriva dentro una qualsiasi città del nord Europa, con gli occhi tristi e i volti traboccanti di malinconia.
Con delicatezza appoggi la tua fronte sulla mia, rassegnata, mentre poco più in basso entrambe le lingue molli ci si incastrano tra i denti, colme di frasi impronunciabili, forse adolescenziali, riproducendo una litania simile a quella che si recitava a scuola durante l’ora di latino, tra un dativo e un ablativo, tra una declinazione e la successiva.
E adesso mi sento come dentro una canzone di Battisti che quando ballo penso a te, bevo e penso a te, stringo le gambe e penso a te. Quasi sempre indecentemente.
Intermittenze del cuore, le chiamava Proust.
Come gesto di ribellione e sommossa sentire ancora le cose fortissimo, dico io.