Contro i gourmet
La faccia è nascosta dai bordi alti dei piatti, ne esce solo il parrucchino scuro e qualche schizzo di salsa al whisky giapponese a coprire le rughe. Il collo gonfio e rosso, quasi strozzato dalla camicia, e le mani rattrappite sotto al tavolo sono gli unici tratti di epidermide esposta alle luci soffuse della sala; il resto del corpo, avvolto in un completo elegante, è abbandonato sul divanetto verde oliva. Sul tavolo, sulla destra, un piattino con gli asciugamani tiepidi stropicciati e un bicchiere ancora mezzo pieno di Josko Gravner Ribolla del 2009 (un’ottima annata). La bottiglia vuota è immersa nel cestello del ghiaccio, posato su di un apposito tavolinetto, alla sua sinistra. Oltre di esso prosegue, staccata, un’altra ala del divanetto verde oliva. Ogni larga seduta ha a disposizione un bracciolo cilindrico ocra, che ben si intona con i colori tenui della grande stanza del ristorante. Sulla parete di fondo un collage di fotografie e grafiche dal sapore orientale creano un certo dinamismo e qualche punto di fuga più chiaro per l’occhio di chi osa spaziare con lo sguardo oltre al proprio piatto. Io sono uno di questi e studio i miei radi commensali per cercare qualche altro mio simile, invano. Oltre l’uomo con la faccia affondata nella settima portata di un menù di dieci, una famiglia tedesca di tre elementi procede all’assaggio silenzioso di un uovo pochè fritto, con spinaci in tre consistenze e orecchie di Giuda, un fungo molto apprezzato in Giappone e in altri paesi orientali, ma che si trova anche in Italia (come tutti gli auricularia, va ingerito nelle giuste quantità, per evitare la sindrome di Szechwan). Oltre la famiglia un po’ triste, la grande parete di vetro lascia intravedere una piccola serra lungo la quale sono stati fatti crescere dei rampicanti, alti fino al tetto trasparente, dal quale immagino debba filtrare una splendida luce nelle ore diurne. Peccato che questo locale sia aperto solo per cena. Mentre le mani del nostro quasi-vicino mandano gli ultimi fremiti, i tre camerieri (piuttosto giovani) circumnavigano e collegano i tavoli occupati dai vari clienti, tracciando linee e formando geometrie invisibili sul parquet scuro. Mai fermi, sempre posati, i camerieri di questo ristorante si dimostrano solleciti ma non invadenti. Sostituiscono i piatti e riempiono i bicchieri dopo qualche minuto dal termine degli stessi, per lasciare lo spazio e il tempo alla degustazione e al commento fra commensali, suggeriscono solo se richiesto, sorridono sempre. Dietro di me, la cucina a vista mostra il cuoco in camice bianco e la sua brigata in camice nero alle prese con le preparazioni necessarie, secondo cicli e movimenti risonanti di quelli dei camerieri. Immagino che in realtà siano questi ultimi a dipendere dai ritmi dei primi, ma la sensazione per noi avventori ingenui è che siano i camerieri a dettare il tempo con il loro incedere misurato fra un tavolo e l’altro, fra una portata e l’altra; ancora di più: fantastichiamo di essere noi in cima alla catena decisionale, e di essere noi, con le nostre mandibole e le nostre masticature a tirare le fila di un processo lento e inesorabile, lungo tutte le portate del menù degustazione.
Torno a studiare il mio piatto, dove un filetto di orata è circondato da un laghetto di maionese al topinambur e da sei piccole sfere verdi, ciascuna sovrastata da un piccola foglia frastagliata. Sotto al tavolo, le mie ciabatte di plastica e i calzini di spugna. Alzo lo sguardo e le chiedo: com’è allora questo purè di prezzemolo?
Molto buono.