Cronache del dopobomba
Ho fatto dieci chilometri per arrivare fino a qui, una soffiata, la corsa in bici nella città semivuota. In realtà nei parchi ci sono ancora persone che mangiano e parlano, così come nei bar, ai chioschi di kebab, agli Späti; le saracinesche abbassate però sono tante, i negozi bui, persino le sale slot hanno dovuto spegnere la perenne insegna OPEN, ci voleva una pandemia. Le pareti degli edifici sono uniformemente grigie ora, dello stesso colore del cielo, le variazioni minime, i colori lividi, persino le persone sembrano mimetizzarsi nella cornice urbana. Qualcuno tossisce, ora ci si fa più caso, molti altri sorridono delle temperature relativamente accettabili, io ho tirato fuori la mia vecchia bicicletta. Dovrei stare a casa, anche se qua in Germania non l’ha ancora detto nessuno, io lo so perché vedo il futuro, e quel futuro si chiama Italia; dovrei stare a casa, dicevo, ma oggi ho una missione da compiere, qualcosa che non poteva essere rimandato a tempi migliori perché non riesco a vedere così tanto nel futuro. Dei ragazzi ballano fra i cespugli di Humboldthein, all’ombra della torre antiaerea, altri si passano sigarette sulla panchina, gesti assolutamente normali che improvvisamente vengono stigmatizzati da un super-io nascosto molto bene dentro di me. Sprofondo dietro al mio cappuccio e mascherina e continuo a pedalare con un obiettivo preciso, le nocche delle mani crepate per i troppi lavaggi. Le auto si accumulano ai semafori come sempre, alle fermate dei bus non c’è troppa gente, nella metro non ho idea perché non la prendo da una settimana ormai. Forse leggo un po’ meno, non essendo costretto le solite due ore al giorno nei mezzi, ma per il momento apprezzo il poter evitare l’inferno dantesco della metropolitana. Rallento, supero qualche capannello di persone radunate sotto alle ultime insegne luminose rimaste, ammucchiati come insetti attirati dalla luce del consumismo. Mentre riparto un turco di due metri mi tossisce addosso volutamente, una tosse forzata, finta, pura provocazione attirata dalla mia mascherina. Ci metto un po’ a capirlo, a rendermene conto, nel frattempo sono già qualche decina di metri oltre quello sguardo incattivito; rifletto su come possa aver associato la mia presenza a quella del virus, per via di quella stessa mascherina che uso per proteggere lui, fra gli altri, da me, e non viceversa, e abbia avvertito la necessità di maschio alfa di scacciare l’invasore, l’untore, la più vaga minaccia, con un gesto che la riproduce e forse la smitizza, ribadendo la propria superiorità. Certe volte i cortocircuiti mentali altrui mi lasciano perplesso, altre mi fanno paura. Quando intravedo la mia destinazione accelero, schivo un’ambulanza, parcheggio e aggancio la catena con unico gesto, mi precipito dentro al Lidl indicatomi dalla mia amica. È già sera, ma lei è stata qui in giornata: uno dei pochi supermercati che hanno il buonsenso di limitare le quantità comprabili dal singolo cliente. Gli avventori si muovono nervosi fra gli scaffali, mi unisco a loro, ciascuno alla ricerca del proprio oggetto mancante, avventurieri dispersi senza mappa del tesoro. I supermercati che non conosco mi fanno ancora più paura, gli scaffali vuoti, la merce ammaccata, le bottiglie spaccate per terra, tutto fa presagire il peggio. Quando arrivo sul posto e trovo due grossi infermieri bardati di tutto punto comprendo di essere arrivato troppo tardi: sulla barella giace un uomo di mezz’età, occhi strabuzzati e colorito cianotico, le mani irrigidite attorno all’ultima confezione di carta igienica.