Holderlinstrasse, Zurigo, fermata del tram 8, una sera d’estate.
In questi giorni fortunatamente fa caldo; il tempo anche d’estate è ballerino e a passo di danza si muove afferrando e allontanando le nuvole grigie. Fa buio tardi; porto ancora gli occhiali da sole.
“Tram 8 / 3min warten”
Aspetto. In giro non c’è nessuno, devono essere già tutti a casa o sul lungolago; anche oggi ho chiuso la porta dello studio per ultima. Aspetto con gli auricolari nelle orecchie e il piede che scandisce il tempo.
“Luglio, settembre arriverà, ma con tutta calma”
Osservo l’asfalto grigio che non si addice al quartiere del mio studio, troppo urbano per una zona così residenziale. Saluto con la mano il cameriere del ristorante italiano di fronte. È di Torino, un designer di interni che fa il cameriere qui ed è contento così perché ogni fine settimana riesce a tornare in Italia dal suo compagno. La città è piena di piccole storie simili, messe assieme come tante piccole perle di una collana. Chissà se a quella collana si aggiunge anche la mia storia. Il tram sta arrivando e dai finestrini abbassati la voce metallica tuona:
Horderlinstrasse!
Salgo i gradini, l’odore degli interni è forte e lo spazio è ristretto. Il tram è vuoto, ci siamo io e una signora anziana col cappello rosso che siede all’inizio del vagone. Una ragazza cerca di salire all’ultimo secondo, ma il tram la lascia a terra. Sono così i trampilot, non si fermano davanti a niente e a nessuno pur di partire in orario. Mi siedo vicino al finestrino. Il tram corre sui suoi binari, le ruote stridono ogni volta che frena; un rumore fastidioso.
Romerhöf!
Mi volto e sulla destra davanti all’edificio grigio e decorato a bassorilievo di una banca, una ragazza attraversa la strada con gli occhiali da sole. Indossa una gonna bianca del colore delle perle, talmente ampia che vola col vento della sera. La ragazza accelera il passo e la sua gonna si muove fluida, come se ballasse. Un tessuto etereo, come se la sua figura fosse vestita di vento.
Lentamente il tram scompare, e il sedile non è più di tessuto ma è la panchina nera di ferro battuto di Place des Vosges. Una piazza simmetrica, la più antica di Parigi, con tutti gli edifici uguali e porticati su tutti i lati. Una piazza come uno scrigno di gioielli simmetrico e regolare nascosto nel Marais.
Davanti a me una ragazza con una gonna nera e ampia si muove a passo svelto in una Parigi di metà luglio. È da un po’ di mesi che vive al primo piano di una casa in Rue Vielille du Temple, a due passi dal Pompidou.
(Englishviertelstrasse!)
Vive la città in ogni suo angolo, come ipnotizzata da tutta quella bellezza senza sforzi. Tornando a casa la sera tardi, cammina per molto tempo; ogni giorno c’è sempre qualcosa di nuovo da vedere, una sfumatura diversa, un dettaglio che magari il giorno prima non ha notato. Avanza senza guardare la strada, come a conoscere quell’arrondissement a memoria. Cammina frenetica simile a Parigi nel tardo pomeriggio, quando le persone escono dal lavoro, le luci si accendono e la città prende vita. D’un tratto si ferma, guarda l’orologio, sistema nervosamente i capelli, alza il viso e cerca qualcuno con lo sguardo. Aspetta con gli auricolari nelle orecchie, indossa gli occhiali da sole, il piede che scandisce il tempo.
“[...]Se vuoi parliamo un'altra lingua
Baby, as you can see, dans ç'est plus facile,
Se vuoi possiamo fare finta che non sia così,
Anche se è così…
[...]”
Anche questa volta è stata l’ultima ad uscire dall’ufficio. Guarda ogni lato della piazza. Abbassa gli occhi e guarda ancora l’orologio. Poi si sente toccare la spalla e si volta.
(Kreutzplatz!)
È arrivato, un po’ più alto di lei, i capelli ricci gli toccano il colletto della camicia celeste con le iniziali ricamate in blu, A.B.
Ha un viso timido, parla poco ma ascolta e sembra osservare molto. Magari parla, ma solo quando è necessario. Gli occhi invece parlano sempre, come quando si sono conosciuti e lui non le diceva neanche una parola e la guardava. È stata lei la prima volta a invitarsi a pendere un caffè mentre lui, timido, restava in silenzio. Capitava che spesso non finisse le frasi, così le finiva lei per lui. E andava bene così, questo gioco la divertiva. L’ha conosciuto per caso mentre lui lavorava alla Galerie d’Architecture, un posto che avrebbe voluto visitare appena trasferitasi assieme alla sua amica con cui stava facendo lo stage ma rimandava sempre, convinta che il periodo a Parigi sarebbe durato in eterno. Ci sarebbe andata da sola, una volta partita l’amica, in un sabato pomeriggio di aprile e avrebbe incontrato lui dietro al bancone bianco.
(Bahnof Stadelhofen!)
Si fermano adesso e si siedono sull’erba della Place. Lei ha qualcosa da mostrargli e dalla borsa ne viene fuori un foglio di carta piegato; lo apre, l’intestazione è uno stemma filigranato verde e sotto la scritta: ”École nationale supérieure du Paysage de Versailles”; dall’espressione in volto, non è molto contenta di quanto scritto dopo. Ha già fatto una scelta, deve solo dirglielo. Lui la osserva parlare, le guarda la fronte, i capelli, le mani, gli occhi, poi resta in silenzio. Forse ha già capito, pensa lei.
I suoi occhi si abbassano e diventano cupi. Non la guarda mai quando sta per parlare; sa già la risposta ma le chiede:
“Cos’hai deciso, resti qui?”
(Bellevue!)
Lei rimane in silenzio, poi a voce bassa risponde:
“No, torno in Ticino.”
“Anche se t’hanno ammessa a l’Ècole?”
“Anche se m’hanno ammessa.” ripete lei, ferma.
“E perchè rifiuti?”
“Perché non voglio cominciare un percorso e lasciarne incompiuto un’altro.”
“E ricominci a settembre?”
“Si, è giusto così. Finisco l’anno e poi chissà, magari potrei tornare qui.”
Lui la guarda negli occhi per minuti che sembrano ore. Non dice nulla, si volta e fissa un punto lontano. Poi tuona:
“E noi in questo anno continuiamo?”
Lei sapeva che sarebbe arrivato il momento di quel discorso, l’aveva immaginato in testa, si sentiva pronta, ma in quel momento non preparata. Così guarda l’orologio, leva gli occhiali da sole per guadagnare tempo e a voce bassa risponde:
“Non adesso, ti prego.”
“E noi continuiamo?”, la incalza lui;
“Ti prego”
“E noi continuiamo?”
Esausta, non risponde. Rimane in silenzio e abbassa gli occhi. Lui sa già la risposta.
Bürkliplatz!
La voce metallica tuona. D’improvviso il tram frena forte. La panchina di Place des Vosges torna ad essere il sedile del vagone, da fuori il finestrino il campanile della Fraumünster domina il cielo di Zurigo.
Negli auricolari per caso passa una canzone familiare:
“Se vuoi parliamo un'altra lingua
Baby, as you can see, dans ç'est plus facile,
Se vuoi possiamo fare finta che non sia così, anche se è così...Mara amava amare ma anche il mare finisce prima o poi, figurati l'amore [...]”.
Tolgo gli occhiali da sole e la gonna nera si muove fluida mentre scendo dal tram. Guardo l’orologio, sistemo i capelli, mi fermo e mi sfioro la spalla per poi continuare a camminare.