È l’estate di San Martino. Quel periodo fugace di tepore che ti illude che l’inverno sia lontano o che non esista proprio. Un’eterna estate, pare. E invece no, ti frega. Perché il gelo arriva comunque e anche velocemente. E proprio quando ti stai abituando a questo piacevole calore, tempo un paio di giorni la realtà ti viene sbattuta in faccia. Bianca, fredda, vuota. L’estate finisce. Tutto finisce. Anche tu finisci, Alice.
Cammino sulla spiaggia deserta in felpa. Sono entrato dal passo a mare a circa cinquecento metri dal pontile. In questo periodo dell’anno trovare parcheggio sul lungomare è facilissimo. E la spiaggia è tutta per me. Sole alto, cielo terso. Ma il mare è incazzato. Come ti capisco, amico. Le onde sbattono brutalmente l’una contro l’altra. L’acqua è grigia e bianca, è petrolio e schiuma, e mi siedo ad osservarla.
Mi aspetto di provare la familiare sensazione di tranquillità e amore incondizionato che di solito il mare mi regala. Ma niente, non appare. Esploro dentro di me. Magari si è nascosta dietro lo sterno. Oppure è rimasta addormentata nel cervello, proprio lì tra l’amigdala e l’ippocampo. Nessun risultato, scomparsa. Il risultato della ricerca mi angoscia. Non provo niente, sono vuoto. Sono un frigo deserto al ritorno dalle vacanze, un cassetto svuotato dopo un trasloco. Mi hai rubato il mare, Alice. Onde e salsedine, uniche medicine per ogni male, strappate via così. Senza preavviso, senza chiedere permesso. Quindi eccomi qui, seduto di fronte al mare. E lo guardo, ma non lo vedo. Lo guardo, ma non lo sento.
Mi alzo infastidito e continuo a passeggiare sulla spiaggia. E’ qui che ci siamo conosciuti tre anni fa, al bar di un bagno, complici una birra media e un ghiacciolo. Tu in vacanza, io autoctono. Era un ferragosto umido e appiccicoso e io nemmeno volevo andare al mare. Odio la spiaggia in estate, stracolma di gente sudata. Quel giorno mi hanno letteralmente trascinato. Mi ricordo il nostro primo appuntamento e quella maglietta bianca scollatissima. Tu pensavi ti guardassi le tette. Io invece ero affascinato dalle tue lentiggini. Le avevi ovunque, non solo sul petto. Avrei pagato per poter passare tutto il tempo a guardarle e a sfiorarle e a unirle con la punta delle dita fino a formare infiniti disegni. Quanto abbiamo riso per questo nei mesi successivi. Tu che mi davi del vecchio porco e io che tentavo di giustificarmi con una scusa che pareva patetica. Ma era la verità. Giuro, Alice, guardavo solo le lentiggini. Solo le lentiggini.
Mi avvicino al pontile e nella piazzetta di fronte vedo il baracchino che in estate vende i gelati e in inverno i bomboloni. Ci passo davanti e mi arriva l’odore di pasta fritta. Fino a poco tempo fa sarei impazzito, sono i miei preferiti. Tu spesso uscivi da lavoro e ti fermavi qui a prendermene uno prima di venire a casa. Adesso solo l’odore mi da la nausea. Non riesco a mangiare. Mi hai rubato il mare, Alice, ma mi hai rubato anche i bomboloni. E le lasagne e la Nutella e le vongole. Il cibo era la nostra passione, ma adesso la passione è morta, andata, deceduta, ed è rimasta soltanto la rabbia. Ecco, potrei dire che c’è chi campa d’amore e chi campa di rabbia. Faccio parte del secondo team ultimamente.
Che odore ha la rabbia? Di ruggine e di sangue. Ti attrae e ti respinge come quello della benzina. Che sai che non fa bene e ti brucia la gola ma lo vuoi sentire ancora e ancora. E tu la odori questa rabbia, la annusi, la sniffi come droga. E la mangi. Senti la rabbia aspra sulla lingua e dura tra i molari. E’ una massa ingombrante e tagliente che fatica a scivolare nella faringe e passa con prepotenza attraverso l’esofago. La rabbia ustiona, è un ammasso di lava che precipita nello stomaco. Ma al contrario del cibo, questa non verrà espulsa. Rimane lì e inizia a fondere tutto. Ti divora lo stomaco, il fegato, il colon, l’intestino. Ti annienta il cuore.
Non mangio il bombolone ma ingurgito rabbia. E la cosa penosa è che fa male solo a me questa collera. Tu Alice non ne sei minimamente scalfita. Vivi in una bolla di sapone, in un mondo rosa in cui le tue azioni non hanno conseguenze. Dove il rimorso non è necessario, il pentimento è superfluo. Ti avrei perdonato tutto. Anche il tradimento. Multiplo, tradimento multiplo. Sai che ci tengo ad essere preciso. Ma non ti perdono la vigliaccheria. Per non guardarmi negli occhi, sei sparita. Il giorno prima era amore. Il giorno dopo era il silenzio.
Cammino lungo il pontile e vado incontro al libeccio. Duecentosettantacinque metri di cemento e salmastro. Vado avanti per inerzia, senza energie. Non mi sento più i piedi, le gambe, gli occhi, la testa. Non sono più un uomo, ma un contenitore vuoto, rabbioso e spossato. Perché, vedi Alice, mi hai rubato i bomboloni e il mare ma pure il mio letto. Non riesco più a starci. E’ una tortura di cotone e piume. Mi sveglio puntualmente alle tre ogni notte. Il che è crudele e ironico, perché io puntuale non lo sono mai stato. Ed inizio ad esserlo ora con l’insonnia. Apro gli occhi, al buio, e provo una rabbia così potente e totalizzante da perdere il sonno. Ti immagino che dormi abbracciata a lui, seni minuscoli e capezzoli giganti, e vorrei rompere bicchieri, sfondare porte, distruggere mobili. Vorrei strappare foto e spaccare finestre. Poi verrei da te a svegliarti - perché cazzo non posso essere l’unico a non dormire in tutta questa storia - e ti afferrerei per quella chioma ingestibile che hai per trascinarti, nuda come sei, in mezzo a tutta questa distruzione. Devi vederlo anche tu, Alice, quanta rovina hai lasciato.
Il mio passo accelera e un suono inizia ad uscire dalla bocca. E’ un rantolo strozzato all’inizio, un gemito quasi. Poi diventa una bella vocale. Chiara e limpida. Una A incazzata, furibonda, urlante. Sto gridando mentre alcune persone mi guardano allarmate. Penseranno sia pazzo e forse hanno ragione. Portate pazienza, non dormo da un mese. Urlo la rabbia, il sonno, la fame. Urlo i tradimenti, le bugie e il doppio gioco. Urlo il mio vuoto. Corro in fondo al pontile e mi afferro al parapetto. Mi arrivano schizzi d’acqua in faccia mentre il mare sotto di me sbatte contro le colonne. Anche il Tirreno oggi urla la sua ira, penso. Ma il mare è pieno, è tondo, è accogliente. Non è solo collera. E’ anche tranquillità. E’ forza. Non è perennemente arrabbiato. E forse anche io sono pieno. Se provo rabbia, posso provare anche altro. Posso essere anche io tranquillo e forte. Posso tornare ad amare questo mare, a dormire, a mangiare bomboloni.
Sotto le mie mani il parapetto è umido. Mi tolgo la felpa e mi levo le scarpe. Appoggio il piede destro sulla traversa più bassa e scavalco quella in alto con l’altra gamba . Adesso mi trovo dall’altra parte e vedo il mare furioso sotto di me. Respiro profondamente. Mentre mi lascio andare e prima di raggiungere l’acqua, in una frazione di secondo rapidissima, sento alcune persone gridare dietro di me. Penseranno mi voglia suicidare. E invece, signori miei, è proprio l’opposto. Voglio tornare a vivere. Voglio tornare a sentire.
Mi hai rubato il mare.
E io me lo riprendo.