La Scintilla era un monolite di mattoni rossi che sorgeva in mezzo alla campagna modenese. Per arrivarci dovevi lasciarti alle spalle una grigia zona industriale, di piccole e anonime fabbriche artigianali, quindi imboccavi una breve strada ghiaiata e superavi uno di quegli inutili passaggi a livello con le stanghe a metà carreggiata, che sembravano dirti: ehi, abbassa il finestrino, se non senti il rumore del treno puoi passare lo stesso. La Scintilla era un centro sociale anarchico, chi l’occupava si vantava di aver dato alle fiamme alcuni sacchi di schede elettorali e di sostenere tesi antispeciste. A noi non fregava un cazzo. Per noi, a metà degli anni Novanta, la Scintilla era quel posto dove avevano suonato, tra gli altri, i Pennywise.
“Oh, ci hanno suonato i Pennywise!” Mi aveva detto Carmine, dopo le prove del martedì sera.
“Ah”. Risposi. Chi cazzo sono i Pennywise? Pensai. Pennywise, ma non era quel fottuto clown che si mangiava i bambini e vagava nelle fogne?
Era l’inverno del 1995, Veltroni e Prodi presentavano l’Ulivo, noi partivano in Panda nera e 127 beige alla volta di Modena. Ci eravamo guadagnati una data sulla fiducia, senza dover inviare alcun demo, attraverso l’intermediazione di un losco figuro che ci aveva già portato a suonare al Lambicco di Vignola, come gruppo spalla alle Tremende. Quella sera il bar della piscina traslocò in massa da Medicina a Modena. Questa volta eravamo di supporto a un gruppo americano, su un palco di tubi arrugginiti e assi di legno marcio. La Scintilla era una vecchia scuola abbandonata, la sala concerti era un’aula dove giovani menti vergini avevano studiato il Risorgimento e i Promessi sposi. Là dentro non c’era aria da respirare, se non un melmoso aroma di cibo rancido, forse un ricordo delle sbobbe servite nella vecchia mensa scolastica. Le note si accalcavano le une sulle altre fino a scalare vette di decibel mai raggiunte. Eravamo quattro musicisti scalcagnati, ma quella notte stavamo toccando il cielo con i nostri strumenti. In quel marasma valeva la solita regola: tutti per uno e nessuno a tempo. Ricordo di aver suonato con il cane randagio del centro sociale che sgusciava tra i tamburi della batteria, agile come un’anguilla sui fondali sabbiosi delle sacche di Comacchio. Persi l’udito per un paio di giorni.
“Non ci ferma più nessuno”. Dissi ai miei compagni, a fine concerto, sorseggiando una birra calda in lattina, la nostra paga. Nessuno rispose, non ce n’era bisogno. Un abbraccio lungo eterno, magliette madide di sudore e aliti alcolici. Ci poteva essere qualcosa di meglio al mondo? No, non a vent’anni.
Oggi la Scintilla esiste ancora, noi no.
A venticinque anni di distanza questo è l’ultimo ricordo di un certo modo di fare musica. Kurt Cobain se n’era andato da pochi mesi, noi lo celebravamo con il nostro essere cazzoni oltre ogni limite. Ho continuato a suonare per un’altra decina d’anni, progetti più seri, esibizioni pensate e curate meglio, ma quello spirito non sarebbe più ritornato.