Diario d'inverno
Il 2018 fu l’ultimo inverno freddo di Berlino, quantomeno l’ultimo inverno freddo abbastanza per congelare i laghi circostanti e parte dello Spree. Per settimane le temperature massime lambirono a malapena lo zero. Un giorno, ammirando le sottili lastre di ghiaccio che galleggiavano sulla superficie del fiume, decidemmo di camminare su di un lago ghiacciato, per la prima volta nella nostra vita. Arrivammo al Weißensee senza sapere bene cosa aspettarci e memori di tutti gli ammonimenti assorbiti durante la nostra vita di consumatori culturali, dalle favole nordiche ai decaloghi polacchi. I laghi tedeschi erano persino dotati di un cartello di divieto, a ricordare quanto allora fosse comune (e pericoloso) camminare sul ghiaccio. Peccato che il suddetto cartello, piantato a pochi metri dalla riva e quindi dai nostri piedi, fosse incastonato in uno strato di ghiaccio spesso almeno una spanna. Arrivammo cauti ai margini della lastra, pestando terra e rametti congelati, saggiando il terreno, senza sapere davvero cosa aspettarci.
Incorniciata dai rami spogli di alberi e arbusti, davanti a noi si palesò una visione incongruente con i nostri timori di neofiti del grande freddo: il lago era popolato di decine e decine di persone, chi giocava a hockey, chi pattinava, chi semplicemente passeggiava tenendosi per mano. Una giovane madre spingeva persino il proprio passeggino sulla superficie rigata di ghiaccio. Molti ragazzi incrociavano i propri pattini, altrettanti adulti li accompagnavano, qualche anziano ammirava e presenziava per l’ultima volta al cambiare delle stagioni. Noi rimanevamo lì, incapaci di mettere da parte le nostre paure, anche davanti a uno spettacolo così gioioso e quotidiano al tempo stesso. Un bambino ci superò sulla destra, correndo e passando dalla terra al ghiaccio senza timori reverenziali, forse senza neanche farci caso, tanto che in pochi secondi finì gambe all’aria, fra le risate sue e dei genitori che lo seguivano a breve distanza. Immersi nei propri cappotti invernali, nelle sciarpe, nelle berrette e nelle tute da sci colorate per i bambini più piccoli, gli uomini e le donne su quel ghiaccio finivano per assomigliarsi abbastanza da confondersi fra loro in un’umanità indistinta e piacevolmente indifferente all’imponente massa d’acqua nascosta sotto ai loro piedi.
Ci prendemmo per mano istintivamente, senza pensarci, e avanzammo così, guanto contro guanto, dove il ghiaccio mordeva ancora la terra. Procedevamo lenti e circospetti, come astronauti su di un pianeta inesplorato, nonostante la superficie congelata fosse tutt’altro che scivolosa, forse troppo fredda per rilasciare quella patina che caratterizza il teorico attrito zero. La lastra di vetro sotto di noi era bianca di detriti fini come polvere e righe spezzate, una ragnatela di crepe compatte e diffuse per tutta la larghezza e lo spessore del ghiaccio. Studiare quelle linee era più affascinante che spaventoso, un’esplorazione in tre dimensioni che non prometteva cedimenti ma profondità. Seguendole arrivammo ben oltre la riva. Dall’altro lato del blocco di ghiaccio, diversi centimetri sotto di noi, potemmo scorgere per la prima volta l’acqua del lago non ancora congelata.
Meravigliati della nostra meraviglia, dimenticata ogni paura, ci scoprimmo a sorridere beati l’un l’altro, ignorando la folla che intrecciava le proprie traiettorie attorno a noi. Il cielo invernale era coperto e uniforme, specchio della superficie sulla quale fluttuavamo sospesi, incapaci di normalizzare le nostre sensazioni. Fu allora che, guardando in basso, sotto di me, non vidi la mia ombra, ma un corpo infagottato in una giacca pesante, grigia e lunga fino a quasi le ginocchia, le mani guantate rivolte verso l’alto e quindi verso di me, attraverso lo spesso strato di ghiaccio. Mi aggrappai a lei con tutte le mie forze e distolsi lo sguardo prima di distinguere i lineamenti del volto congelato, livido, terrificante.