Era un lavoro che alternava interminabili ore di noia a sprazzi di follia e divertimento. Soprattutto le ore del primo pomeriggio dopo che l’ultimo fattone, a volte lì dentro da giorni, se ne era andato e prima che i puristi dell’aperitivo arrivassero verso le 17.30, erano piatte e monotone.
Invece la notte era strana forte.
Il problema più frequente riguardava il numerino delle giacche del guardaroba automatico, che dal terzo gin tonic in su diventava difficile da gestire per chiunque. L’intervento umano si rendeva necessario per aiutare questi poveri cristi a recuperare i loro indumenti, e tra gennaio e febbraio era più che altro un’opera umanitaria di buon senso, viste le temperature. Mi chiedevo come facessero negli altri paesi, senza la «quota umana», a risolvere il problema. Tant’è. Il magazzino del guardaroba era una trappola infernale e per intervenire manualmente bisognava spegnere tutto per non correre il rischio di rimanere incastrati nei cappotti, ovviamente solo io potevo accederci e solo io potevo mandare tutto a puttane.
Una sera di gennaio mi stavo bevendo una birretta in orario di lavoro – era concesso – e mentre fumavo una sigaretta sotto il portico appena fuori dal locale mi si avvicina una ragazza con due occhi azzurri come l’oceano indiano. Faceva un freddo illegale e lei era tutta imbacuccata e si vedevano solo gli occhi e il nasino che spuntava dalla sciarpa, era bassettina e minuta e si muoveva con una certa grazia a piccoli passi di danza e le braccia leggermente allargate a volteggiare sotto il portico, vicino a me.
«Ce l’hai una sigaretta?»
Aveva un accento del sud non troppo marcato e una voce profonda in relazione alle proporzioni del suo esile corpo, o forse era la sciarpa davanti alla bocca.
«Sì» risposi, senza dar seguito con un’azione ma continuando a fissarla perso nell’oceano.
«Ehm, me la offriresti?» proseguì con timido imbarazzo e cambiando appena l’espressione degli occhi in un leggerissimo velo di dispiacere.
Ok, mi ero innamorato.
«Ma certo.»
«Grazie.»
«Freschino eh?»
«Già.»
Era sola e non sembrava aspettasse nessuno, si fumò la sua (mia) sigaretta senza dire nient’altro e neanche io dissi nient’altro e poi varcò la porta automatica con il suo tesserino sanitario e io la seguii nell’atrio per riscaldarmi. Si tolse la giacca e la sciarpa e rivelò il suo esile corpo e le sue invitanti labbra e io ero già nell’iperuranio della mia vita insieme a lei.
«Come funziona?»
«Ah, è la prima volta?»
«Sì.»
«Non ti preoccupare ci penso io, hai due euro o paghi con la carta?»
Nella mia testa c’erano due diktat: sii gentile e non fartela scappare. Nella sua, come scoprii più tardi, ce ne era solo uno: fatti male.
«Scusami la domanda, ma sei da sola?»
«Sì, ho avuto una brutta giornata.»
«Mi dispiace, mi permetti di offrirti un giro?»
Alla grande Arturo! Dritto alla meta! Prima che intervenisse qualche altro scoppiato a soffiartela!
«Grazie, volentieri. Ma tu lavori qui?»
«Più o meno.»
Era la risposta che davo a chiunque me lo chiedesse: poteva definirsi lavoro fare da balia ad una discoteca automatica? Più o meno, appunto.
E poi i giri offerti diventarono due e poi tre, poi offrì lei e nel locale c’erano 100 persone e ovviamente della musica di merda e io potevo concedermi una birra in orario di lavoro ma non ubriacarmi malamente e continuavo a guardarla negli occhi mentre parlavamo di tutto tranne che della sua giornata di merda e io guardavo le telecamere del locale cercando di sembrare lucido ed efficiente. In fondo non dovevo mica fare niente, era tutto automatizzato, che cazzo vuoi che me ne fregasse, ero lì con… con…
«Perdonami, sono un cafone! Io mi chiamo Arturo, tu?»
«Valentina e non sei un cafone, sei molto gentile!»
«E tu hai degli occhi che mi sembra di essere in mezzo all’oceano!»
Arrossì un po’, quel tanto che bastò a farmi crollare definitivamente.
Al quinto gin tonic pensai fosse opportuno chiederle quanti anni avesse.
«21.»
«Wow, sei una sbarba, io 28, cosa studi?»
«Lasciamo perdere l’argomento per favore, mi sto divertendo con te.»
«Agli ordini.»
Il dj automatico aveva riconosciuto una popolazione di trentenni a cui piaceva cantare ballate di merda, revival di ballate di merda di un'altra epoca fatte tutte col pianoforte e con parole scritte da un bambino prodigio di 8 anni a cui piacevano la sinestesia e l’anacoluto.
Avevo qualche problema di stabilità ma mi sembra di ricordare che Valentina stesse peggio. Ci baciammo con poca grazia e molto alcol.
Poi lei mi disse «Portami a casa!» e io le dissi che non potevo, che dovevo rimanere lì fino alle 7 del mattino e allora facemmo l’ultimo giro di unità alcolica concesso dal sistema.
Nonostante fossimo entrambi molto in là - lei di più, probabilmente - ricordo abbastanza bene quel che successe. La selezione del dj automatico di merda era passata all’ormai inevitabile eurodance anni 90, non era musica bella, era musica che ricordava l’infanzia e l’essere bambini felici e quindi la gente voleva ascoltarla perché: Dio! Che bello sarebbe essere ancora una volta bambini! Ma nessuno capisce mai che quella è una condizione mentale e non nostalgica e ci si può sentire bambini anche ascoltando musica decente e proprio mentre facevo questo pensiero altissimo il dj di merda fa partire “Everything in its right place”, che evidentemente non c’entrava un cazzo ma per me era bellissimo. Probabilmente fu un errore dell’algoritmo di analisi del pubblico, visto che la gente si stava divertendo tantissimo ballando “Think about the way”, ma sul momento non mi feci troppe domande ed iniziai a vagare per il locale urlando:
«everythiiiiiiing in its riiiiiight plaaaaace»
There are two colors in my head
There are two colors in my head
What is that you tried to say
What is was you tried to say
Finalmente stavo bene, ero ubriachissimo e ormai disinteressato del mio posto di lavoro e delle telecamere che mi riprendevano e mentre volteggiavo per il locale vedevo la gente che si lamentava di questa musica sbagliata per il contesto ma giustissima per me. Valentina voleva tornare a casa e mi si attaccava addosso e mi implorava e io le dicevo di aspettare un po’, oppure che ci saremmo potuti vedere nei giorni successivi, ma niente. Poi i Radiohead cessarono all’improvviso, un trancio netto, proprio mentre la gente stava iniziando ad andarsene ed io stavo per raggiungere il nirvana.
Partirono i Venga Boys.
“Boom, boom, boom, boom!”
Valentina era talmente ubriaca che non si accorse di nulla e io ero probabilmente l’unica persona nel locale dispiaciuta per quel passaggio musicale agghiacciante. Tuttavia, accettai rapidamente la mia inadeguatezza e tornai a concentrarmi sulla mia bella, che non ne poteva più e voleva tornare a casa.
«Dov’è il mio cappotto?»
«Adesso lo recuperiamo, dove hai il numerino? Te lo ricordi?»
«Cosa?»
«Il numerino?»
«Cosa numerino?»
«La giacca, il numerino del guardaroba.»
«È un indovinello? Sono stanca portami a casa, andiamo a fare l’amore.»
In tutto questo Valentina barcollava e sbiascicava, ma per me era comunque splendida ed effettivamente anche io volevo fare l’amore con lei, ma non potevo andarmene e non avevamo nemmeno il numerino del suo cappotto. Allora ci intrufolammo nel magazzino del guardaroba automatico avendo cura di spegnerlo per evitare di farci inghiottire dai giacconi. Poi mi sa che facemmo un macello tirando giù tutto, creammo una sorta di stanzone morbido con tutti i cappotti per terra, tipo le vasche con le palline per i bambini, ma con piumini e paletot e sciarpe e berretti. Poi facemmo l’amore, credo, spero, ma che senso ha passare momenti così intensi se il giorno dopo non te li puoi ricordare? Allora sì, ci rotolammo nel morbido baciandoci e toccandoci e ci spogliammo nudi e ci accarezzammo e leccammo ovunque e fu bellissimo e molto alcolico.
Quindi forse fu bruttissimo.
Ma no, impossibile.
Fu bruttissimo qualche ora dopo.
Mi svegliai in mezzo ai cappotti con un filo di luce che penetrava dalla porta del magazzino, di fianco a me percepii una presenza, ma non era Valentina.
Era l’avvocato Warner, il proprietario, in piedi a pochi metri da me che mi guardava come si guarda una cosa che non si capisce, un quadro cubista espressionista dipinto da un non vedente con uno spiccato gusto per il laido.
Ero nudo e avevo la capacità dialettica di Chewbecca, così mi rivestii con quello che trovai e uscii senza proferire parola mentre l’avvocato mi osservava, sempre con la stessa espressione.
All’ingresso del locale c’erano una decina di persone, clienti di quella notte e una pattuglia della polizia. Di Valentina nessuna traccia.
Chiesi in giro se l’avessero vista ma ricevetti in cambio solo insulti. Ci credo, li avevo lasciati senza cappotti. Alcuni erano tornati a casa comunque, altri avevano aspettato e dopo un po’ avevano chiamato il numero di emergenza, ovvero la proprietà. La polizia mi disse che avevano ricevuto un’altra segnalazione dal 118 un paio d’ore prima, che avevano trovato una ragazza mezza nuda in una pozza di vomito appena fuori dal locale e l’avevano portata al pronto soccorso.
Mi prese un gran magone e pensai a mia mamma, pensai che dovevo cambiare registro, che non potevo andare avanti così, poi pensai a Valentina. Presi la bici e mi involai verso l’ospedale ma al triage non mi potevano dire niente. Così mi appollaiai su una sedia della sala d’aspetto in attesa che venisse dimessa e mi addormentai.
Non la vidi mai più.
Quando parlai con Warner mi disse che quella ragazza stava bene, anche perché se fosse successo qualcosa di più grave ne avrebbe pagato le conseguenze e non sarebbe stato così gentile nel mandarmi, elegantemente e inevitabilmente, a quel paese.
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