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Sono al centro di una stazione ferroviaria e sto piangendo. In realtà è successo molte altre volte e le ricordo tutte con estrema diligenza.
La prima di queste è stata tredici anni fa, avevo due ruote al posto delle gambe, mia mamma spingeva la mia sedia e a Bologna c’era neve altissima, non riuscivano a trasportarmi fino alla casa in legno grezzo che avevamo dietro la chiesa di San Domenico, non c’era verso. Piangevamo un po’ tutti in realtà, perché finché puoi prendertela con qualcuno è facile, è semplice gridare contro qualche automobilista stronzo e disattento che parcheggia dove non dovrebbe.
È più complicato invece quando sei tu la tua stessa disabilità. Quando è il vento, la pioggia, quando sono le braccia che mancano di forza e le gambe di ossa.
Per molto tempo mi sono sentita inutile, e non è stato bello. Per niente.
Mi sono sentita sola per un lunghissimo periodo della mia vita che ricordo ma avvolto da un manto di nebbia. Ed è comune, lo so, lo vedo, lo sento dalle bocche degli altri, quelli che vivono ora ciò che io ho vissuto prima.
Ma non è giusto per un cazzo.
Adesso qui, al centro della stazione di Firenze Santa Maria Novella, piango tutte le lacrime che ho versato in passato, una per una, le faccio cadere ai lati del viso con noncuranza. Piango per tutte le volte che mi sono ritrovata a pensare di non farcela, per tutti i momenti in cui sono caduta in ginocchio stanca, sfinita e faccio una lista lunghissima, non smetto finché il freddo non mi permette più di muovere le mani.
La seconda volta ero qui, in questo stesso posto di merda, saranno stati tre anni fa. Ricordo che tutto intorno a me tremava, il pavimento non era più un pavimento, era lava, era terriccio fragile, sabbia leggerissima, come quando ogni estate provo a risalire la discesa ripida delle cascate di Castel Giuliano, quando puntualmente qualcuno deve prendermi dalle braccia e tirarmi su di peso perché il mio piede cede ad ogni appiglio.
Faceva molto caldo quel giorno, ci eravamo appena scattati una polaroid sotto la cupola del Brunelleschi. Io avevo le braccia ancora sporche di pittura, gli occhi brilli, ero felice, parlavo senza fine.
Non lo sai mai quando sta per arrivare una delusione, vero? quando il filo liso che lega due persone si strappa irrimediabilmente causando morti e feriti.
Ricordo di aver percorso Piazza Santa Maria Novella con la testa china, tu davanti che trascinavi la mia valigia e io che non riuscivo a parlare.
Quando mi hai abbracciata davanti al binario dieci sono caduta sugli scalini del treno e non ricordo di essermi più rialzata. Bum. Ferita. Grandioso.
L’ultima volta prima di oggi è stata solo qualche mese fa. Piangevo di gioia fuori dalla stazione di Grosseto. La maglietta aderiva perfettamente al torace, senza reggiseno, come solo Agosto sa fare. Avevo il telefono scarico ma continuavo a scrivere a chiunque di quanto fossi contenta, di quanto non mi mancasse casa, di quanto avessi da raccontare e quanto non vedessi l’ora, finalmente, di partire per le vacanze. Mancavano pochi passi, poche fermate di treno e sarei stata libera da tutti pensieri che mi caricavano le spalle e di tutte le vite che si erano appollaiate sul mio cuore premendo fortissimo.
Oggi piango perché tutte queste mie corse talvolta sembrano rivoltarmisi contro. Tutto il sudore, la fatica e l’amore che metto nei gesti e nei pensieri di tutti i giorni, finiscono per rivelarsi vani.
Il vento soffia fortissimo tra i binari vuoti e s’infila tutto sotto la mia giacca.
Cerco di respirare, di non crollare, leggo per la quinta volta Altri Libertini e non capisco nulla, troppe sottolineature e asterischi ai margini, mi fa male la testa.
Non mangio da molte ore, non bevo perché c’è molto freddo e la pipì mi buca la vescica. Sento dolore ai muscoli, un dolore diffuso che parte dalle palpebre e si espande fino alle caviglie.
Le cicatrici tirano, si lagnano, cacciano lamenti senza senso. Nel frattempo qualcuno cerca di chiamarmi ma non ho voglia di rispondere. Dovrei continuare a correre, a camminare a passo svelto,
se solo riuscissi a muovermi.
Mi tengo su con la schiena appoggiata ad una colonna di marmo sporco, la cicca spenta ancora sotto al piede sinistro.
Il posto in cui devo arrivare è ricoperto di neve eppure rimango qui, risoluta, spenta, rotta.
Inizia ad infastidirmi anche quest’accento che conosco a menadito. O Par cœur, come dicono in Francia. Attraverso il cuore.
Ripeto nella mia testa quella frase che dice “mi manchi che mi mancano praticamente tutti i pavimenti”.
Oggi è più vero che mai. Se fossi rimasto qui in questa città sarebbe stato tutto diverso, ne sono certa. Migliore.
Ora saremmo nella tua casa al centro a bere succo di frutta e a buttare la cenere delle paglie dalla finestra del salotto, ridendo o cantando qualche vecchia canzone che ci fa tremare i polsi.
Tu mi diresti che non è poi così strano che abbia smesso di piovere,
perché inspiegabilmente ogni volta che scendo dal treno le nuvole se ne vanno senza fiatare.
Invece no, stasera le nuvole cercano di dirmi qualcosa, di parlarmi, mi gridano fortissimo nelle orecchie.
Stop. Inizia la musica.