Doppio Nodo
Mi sono appoggiata contro un muro e ho acceso una di quelle sigarette che respiri fino a che non ti manca il fiato. Ho sentito le gambe tremare e arrendersi al suolo, che poi era un marciapiede pieno d’intonaco e mozziconi schiacciati. Grazie a dio non mi ha visto nessuno (come canta Contessa ancora incastrato dentro la mia adolescenza) ostento con fierezza certe mie invisibilità. Il mio carattere è figlio di madre e figlio di vento.
Adesso penso che c’è un piccolo spazio sotto casa di qualcuno dove proprio ora sta camminando o dove qualche cane starà pisciando, un piccolo spazio in cui ho lasciato le promesse che avevo fatto a me stessa, lacrime di rimmel e qualche migliaio di grida.
Come quand’ero piccola e mia nonna mi conservava dentro il borsello in una foto spiegazzata, che forse dopo tutto sarebbe stato bello rimanere lì dentro per sempre.
«Sei troppo intelligente per poter essere felice» mi diceva.
Insisto su quello che mi viene meglio: chiudermi in me stessa. Prima o poi riuscirò a liberarmi anche dalle catene che ho forgiato con le mie mani. Sono sopravvissuta alla morte bambina “posso farcela” penso, e automaticamente mi stendo sul letto, mi muovo come un insetto rigirato sulla schiena finché le gambe non arrivano a toccare la parete dedicata ai poster dei miei gruppi preferiti, alle polaroid dove stiamo stretti e alle lettere d’amore (che poi sono tutt’e tre la stessa cosa).
Sono rimasta sdraiata per ore con il cuore arreso e il mascara che bruciava ancora caldo sotto gli occhi. Sulle dita ho contato le promesse che non abbiamo mai mantenuto, dando al verbo “mantenere” molteplici significati. Istintivamente penso che in fondo non sono poi così sola, che nessuno sa davvero lasciar andare, che lì fuori è pieno di persone infilate nelle canzoni, nelle password e nei file di ricordi di qualcuno. Che ascoltare Cremonini, in macchina, di notte, è un segreto di tutti, perché la bellezza disarma e ci pone in uno stato di fragilità. Mi sposto i capelli dietro l’orecchio e scopro che sei sempre stato lì.
Che avere poco più di vent’anni è un macigno sulla schiena e un pensiero fisso in testa, sono le calze rotte, tornare a casa per stare male, avere la nausea e sentirsi sempre stanchi, trascurarsi per mettersi alla prova, per capire se si è in grado di provare qualcosa; saltare i pasti, uscire senza l’ombrello, i timbri sulle mani e gli adesivi incollati ovunque, scoprirsi seduti attorno a un tavolo alle cinque di mattina.
Quello che mi fa stare bene è quasi sempre non spiegabile e la maggior parte delle mie storie felici non hanno una data, molte hanno dei luoghi, quasi tutte contengono persone. Ma non sono mai spiegabili. Provo a raccontare di una ragazza di diciassette anni non vedente che mi ha permesso di riconoscermi dentro le sue parole: «non sei molto alta, porti sempre i capelli legati e mai in ordine, gli occhi luminosi, le guance sempre rivolte all’insù e non ti piace farti toccare il viso perché hai paura che ci rimanga male.»
La sintesi di certi occhi.
Poi l’ho presa sottobraccio e l’ho portata fuori, era tardo pomeriggio, la luce del sole già dietro le montagne, solo qualche raggio ancora resisteva alla notte e c’illuminava il viso, allora le ho detto «questo colore che ti senti addosso si chiama giallo ed è importante che lo conservi per sempre dentro di te per quando ne avrai bisogno, è questo il mio segreto».
Lei mi ha abbracciata con gli occhi umidi e avvicinandosi al mio orecchio ha sussurrato che però, di rimando, una volta ritornata a casa io avrei dovuto avere meno paura del buio.
A me non serve roba facile, serve roba vera ma non tutto è perduto, alcune cose sono solo nascoste bene.
E come i temporali estivi, faccio il doppio nodo a tutto quello che arriva all’improvviso per ricordarmi che quello che scombina i piani talvolta porta sollievo.