E non avere rimorsi
Spero mi permetterai di essere sincera, ma spero anche che mi perdonerai se lo sarò in modo estremo. Il punto è che non credo molto a ciò che mi stai raccontando da mezz’ora a questa parte. So di essere solo un numero nella tua rubrica, so che non ti ricordi il mio nome e che ti senti estremamente in colpa per questo, ma non mi interessa. Anzi, è quello che voglio, essere come la polvere invisibile che si deposita sul cappotto e che scacci via con un gesto della mano. Sono abituata a vivere passando da un vuoto d’aria a un altro, quasi temessi di saper respirare. L’essere una cosa da niente mi conforta, mi permette di addormentarmi la notte. Ed è cercando questa sensazione, questo vuoto, che ho risposto al tuo invito.
Così tu gesticoli e ordini un altro calice, mentre accavallo le gambe e penso che quella camicia, ben stirata e abbottonata, sta cercando di dirmi altro. Mi racconti della promozione, della casa nuova che stai finendo di ristrutturare, dell’ultimo weekend fuori porta con gli amici e, più parli, più sento la mediocrità della felicità farsi pressante, per me. E per te. Come se tutto quell’entusiasmo non fosse sufficiente a farti ammettere la vera ragione per cui mi hai scritto quel messaggio.
Ci eravamo conosciuti per caso, tramite amici in comune, a un’ordinaria inaugurazione. Mi aveva colpito la tua presenza dissonante, come se fossi lì per una volontà ricercata e nel contempo casuale. A tratti c’eri e a tratti eri assente, qualche battuta brillante detta a voce spenta, i sorrisi di circostanza con le labbra tristi, il bicchiere sempre pieno, quanto il vuoto nel petto. Mi piaceva il tuo profilo regolare, immaginavo di poterlo disegnare al buio con un dito. Non volevo accarezzarlo. Volevo disegnarlo, come un sogno bizzarro, e darlo in pasto alle tenebre. Quel profilo regolare non era abbastanza, sembrava perfetto, ma non lo era, nascondeva l’orrore originale che i danneggiati riconoscono al volo - questione di pelle, dicono. Per questo ci eravamo scambiati i numeri. Per questo sapevo che ti saresti fatto vivo. Eppure, ora stai cominciando ad annoiarmi con tutte quelle parole, quell’esaltazione fittizia e sgraziata. Dove si nasconde lo sguardo scisso che avevo colto la prima volta? Sotto la boria impiegatizia, dimmi che ancora tremi quando pensi di farla finita.
Ma adesso lentamente comincio a vederti, mentre snoccioli i buoni propositi per l’anno nuovo. Il fatto che negli ultimi mesi tu abbia smesso di fumare, ti sia iscritto in palestra e sia andato a letto presto la sera non ti renderà un uomo migliore. Non per me. Non è questo che cerco. Annuisco poco convinta, per dare un contentino all’approvazione che ricerchi, e probabilmente il sorriso fattosi ghigno ti inquieta, ma ora io ti vedo.
Ti vedo per come sei, anzi no, vedo solo il peggio di te e mi piace. Mi piace immaginarti mentre cerchi le parole giuste per mandarmi un messaggio, non ricordandoti il nome, ma solo le gambe, mentre mi scrivi per invitarmi a bere qualcosa, senza mai ammettere con te stesso che scoperemo, ma non per piacere, bensì solo per ferire un’altra persona. Un’altra che io non conosco e di cui poco mi importa.
Ma alla fin fine, a me, di cosa importa?
Ti sento sotto la camicia, nella lotta tra il vino che ti rende più sincero e arrabbiato e la sobria lucidità che ti vuole soddisfatto e risolto. E sento il disprezzo crescere, aumentare di volume, farsi come un’erezione stretta nel cavallo dei pantaloni: ti disprezzi così tanto che non mi guardi più. Non deludermi, non tornare a casa con le fantasie e gli scontrini piegati insieme nel portafoglio, puoi fare di meglio: dopo tutto ci sarà un motivo se ho accettato di uscire con te. Portami in hotel. Trova un motivo valido per disprezzarti e disprezzarmi. Lascia il finto entusiasmo al bancone e fammi vedere il peggio di te. Fammi vedere le cose che non si possono pensare, quelle che non vuoi dire, quelle che ti fanno sentire un verme, fammi sentire la furia dell’impotenza di tutte le volte che avresti voluto, ma.
Io ti vedevo chiaramente ben prima che ti sfilassi la camicia. Ti conoscevo ben prima che mi offrissi da bere. Sei come me, come tutti insomma. Meschino, abietto, cerchi una scusa per ferire, ma hai paura di ferirti. Stasera hai la fortuna di avere me come pretesto, che non ti serberò rancore, ma ti regalerò l’oblio che insegui.
La verità è che, ai miei occhi, la tua rabbia è più interessante della promozione, la tua angoscia è molto più affascinante delle tue foto estive su Instagram, la tua violenza è sicuramente più eccitante della premura con cui hai insistito per pagare il conto. Tutte insieme, mescolate al vino e alla miseria umana che ci accomuna, ti rendono in un certo qual modo indimenticabile. Soprattutto quando smetti di mentire a te stesso e ti riveli per quello che sei: brutale. Ed era quello che volevi, volevi esserlo da così tanto tempo. Volevi dimostrarti di saperlo essere da così tanto tempo che quasi non ci credi. Brutale. Ed era quello che volevo, per sentirmi piccola, insignificante, per dimenticarmi e annaspare inseguendo il respiro.
Io non ti piaccio veramente, così come tu non piaci a me, ma nel momento in cui cominci a farmi paura, quando sento la paura dura, nello stomaco, farsi come un macigno, allora e solo allora sei bellissimo, diventi qualcosa cui non posso rinunciare per nulla al mondo. E vale lo stesso per te, quando senti l’odore della mia paura, diventa imprescindibile esserne l’artefice. L’oggetto del desiderio è quello del terrore, del potere. Mi tieni forte per i polsi tanto che fanno male, tanto che temo si spezzino. O lo desidero? È come se presagissi con piacere lo schiocco delle ossa rotte e intuissi la forzata inanità come spazio di salvezza. Come se costretta all’immobilità potessi finalmente considerarmi inutile e cominciare a respirare senza disturbare, respirare restando invisibile, trasparente.
Ti ostini a voler pagare anche la camera e vorrei che lo facessi scientemente, sapendo di aver comprato una scopata con un paio di bicchieri, di avermi comprata, ma soprattutto scegliendo di pagarmi. Sarebbe infinitamente più interessante, se solo tu lo capissi, ma lo fai perché credi si debba fare così, perché ti hanno insegnato che l’uomo deve offrire. Perché non riesci a sostenerne il peso, di quella che sei solito inquadrare come oscenità, e allora, come la donna sfiorita col belletto, la agghindi di ipocrisia. Puoi comprare una casa, l’arredamento, i vestiti, puoi offrire una cena, ma proprio non puoi ammettere di comprare del sesso. Ti rimetti la maschera della vergogna e, allora, solo allora, mi fai veramente orrore.
Comprami, tutte le volte che vuoi. Pagami per tutte le ore che vorrai, torna a casa solo, così come ne sei uscito, ma fallo coscientemente senza dover accampare scuse. Sii la parte peggiore di te, perché nuda, senza travestimenti, è autentica. E forse vale qualcosa. Forse vale davvero qualcosa di più dei possessi che ostenti.
Ti lascio un biglietto nella tasca destra del cappotto:
“Le buone maniere servono per tenersi stretto il lavoro, per pagarsi l’affitto.
Ma quelle cattive servono per vivere,
e non avere rimorsi.”