Emicrania
Da dietro le vetrate del lavoro il vento non si nota poi tanto, a guardare in basso si vedono gli alberi spogli piegati al suo volere, forse qualche passante un po’ storto, ma niente di più. Una volta fuori dall’edificio, i lembi dell’uragano Sabine colpiscono il volto e le mani, penetrano la mia berretta di lana e chiudono le pagine del Bernhard che sto leggendo (Correzione). Stringo gli occhi e proseguo per la mia strada, imbacuccato nel cappotto invernale; i marciapiedi sono pieni di rametti e ricci spelacchiati, file di biciclette e monopattini elettrici sparsi in posizione orizzontale, buste di plastica e fogli di giornale (Motz) mi vengono incontro e superano rapidi, volando nell’aria gelida, i rami nudi si allungano per ghermirli. Incrocio pochi passanti e ancora meno turisti, un gruppetto di asiatici inseguono le proprie mascherine strappate dal vento, i senzatetto si riparano dietro alle pareti e agli angoli degli edifici, solo uno rimane in piedi, avvolto da più strati di vestiti laceri e mi guarda passare senza dire niente; gli ubriaconi della stazione si sono rintanati oltre le porte automatiche, dove l’aria si fa pesante e densa di alcol. Proseguo sulla via piegato in due, una mano sulla berretta, l’altra stretta al libro, nascosto contro di me. Dall’altro lato del marciapiede un vecchio cade, tenta invano di aggrapparsi al suo bastone. Rimane per terra per qualche secondo, più sorpreso che dolorante, due ragazze gli si avvicinano e lo aiutano a rialzarsi, tutti e tre imbarazzati dalla circostanza. Prendo fiato dentro a un androne, presento già il mal di testa che mi possederà entro pochi minuti. Cerco rifugio dai miei pensieri e dolori, ma un’ombra mi viene incontro da dietro i vetri sporchi, un uomo vestito completamente di nero esce dal portone, mi squadra e passa oltre. Si lascia dietro una scia di sudore e lacrime, qualcosa di vagamente ferroso, niente che trasparisse dal suo volto impassibile, truccato (dark). Sento la testa pulsare, so che sta arrivando e non posso evitarlo. Non tornerò a casa fino a stasera e non ho rimedi farmacologici a portata di mano, preconizzo il dolore che mi impedirà ogni pensiero, sento la nausea bloccarmi lo stomaco e le gambe, gli occhi si fanno pesanti, spingono contro le palpebre. È in questi momenti che percepisco più che mai la consistenza del mio essere tangibile, le varie componenti di quella macchina biologica che chiamo corpo: sento il sangue fluire fino alle punta delle dita, informicolite, i bulbi oculari non sono più organi di senso ma due biglie di ferro piantate nel cranio, gli organi interni scivolano l’uno contro l’altro, accartocciandosi senza pietà nel mio ventre flaccido, le vene pulsanti delle tempie e del capo penetrano fino al cervello. Deglutisco, respiro profondamente, cerco di prendere le distanze da ogni percezione, ma il mal di testa è uno dei pochi dolori dai quali non riesco ad astrarre. In mancanza d’altro, faccio la scelta sbagliata: mi rigetto là fuori, nel vento. Avanzo stringendomi il capo con entrambe le mani, il libro sotto all’ascella sinistra (perché non ho lo zaino con me?); dopo qualche centinaio di metri sono costretto a rialzare lo sguardo, non posso più avanzare: sono crollati cinque piani di impalcatura: un intreccio di tubi, ferri, griglie, e un lungo telo plastificato bianco che sbatte furioso, incapace di nascondere quell’unico corpo rimasto incastrato là sotto, lui sì diviso nelle sue componenti più essenziali.