Esistono balconi che mi fanno essere a Napoli pur trovandomi altrove.
Sono i balconi degli ultimi piani, dalla ringhiera scura e sottile, esili aggetti bianchi, intonaci splendenti di luce.
Quando cammino e alzando gli occhi ne riconosco uno, penso che quel balcone sia rivolto verso il mare – mio mare immaginario.
Balconi che sono apparizioni. Qualcosa di simile a casa.
Ho costruito con il tempo una mia Napoli immaginaria – realtà personale recente pur essendovi nata venticinque anni fa.
È mancato il tempo per conoscerla e per riconoscerla nel tempo.
L’ho conosciuta quando si è piccoli e si inizia a conoscere tutto; la parola Napoli era il giardino della mia prima casa e l’odore acre di via Scarlatti quando passeggiavo con mia madre.
L’ho continuata a conoscere a distanza, a cadenza non regolare tornavo in una Napoli che si faceva sempre più costellazione emozionale di case familiari nelle quali io mi sentivo vacua ospite.
Nel tempo ho mischiato parti di Napoli e delle città in cui vivevo, della me dentro e fuori Napoli senza ordine spaziale e cronologico per poter fare mia una città altrimenti troppo altra da me, seppur presente in me.
Mi ritrovo così a vedere Napoli ovunque – l’esito principale dell’operazione di appropriazione tramite un caotico collage di memorie, napoletane e non.
Napoli immaginaria. Ovunque. Mai casa.
Nella casa che abito a Parigi ho attaccato al muro la mia personalissima immagine di Lisbona – ritaglio di città sulla quale mi sono affacciata dal balcone della mia stanza per un anno e che probabilmente non avrò più il piacere di osservare da quello stesso punto.
Ho attaccato Lisbona-casa all’altezza degli occhi per poterla osservare quando mi siedo al tavolo.
Nell’attuale casa che abito a Parigi ci sono quattro finestre, di cui solo una si apre sulla corte del condominio. Le altre tre sono sempre aperte su scene di vita quotidiana vissuta e passata.
Seduta alla scrivania – così come avveniva dal finestrino del tram – osservo la palma morente, al centro di Largo do Rato a Lisbona, accanto alla quale passavo tutti i giorni andando in università.
Sdraiata a letto mi perdo in una Venezia notturna immortalata da occhi non miei e poi a me ceduta in un giorno qualsiasi. Venezia che coincide casualmente – non potevo saperlo quando la feci mia – con quella che ogni mattina incontravo per prima uscendo dalla mia ultima casa lì.
Le città si attraversano e io le attraverso cercando rimandi tra loro.
L’avenida che un anno fa preferivo alle altre, si è ora trasformata in boulevard; le vie e le piazze di mare che ho attraversato per puro piacere altrove, hanno mantenuto la stessa vivacità qui a Parigi delle vie e delle piazze senza mare, e nonostante questo le sento mie.
Gli spazi di una città che non si sovrappongono a quelli dell’altra, diventano le più belle immagini da ripercorrere svoltando angoli sconosciuti.
Venezia non la cerco mai altrove – e mi domando se la mia Venezia sia anche un luogo.
Tutta luogo, all’inizio – città che era prosecuzione all’aperto di tutte le sue stanze. Il corpo della città era il mio corpo che iniziava ad ambientarsi alla pietra velata, all’immagine muta nella nebbia, alle corse notturne nelle calli come in un nascondino ritrovato.
Poco prima di andarmene davvero per la prima volta, ho realizzato che era tutto fuorché luogo, e già ricordo di me e ricordo di chi lì era a me caro.
Venezia non la cerco altrove e la ritrovo ogni volta parlando.
Luogo delle mie parole.
Non sento nessun luogo casa. Alcuni odori sono concetto di casa.
Certe combinazioni di luce ed intonaco, in paesaggi metropolitani vari, mi riportano alla me bambina e alla sensazione di essere Napoli – nessun altro luogo possibile, allora, ancora.
Casa, che arriva fulminea – luce, odore, senza preavviso. E gli esili aggetti bianchi degli ultimi piani.
Ogni volta che lascio una casa in cui ho abitato, che chiudo per l’ultima volta la sua porta, che percorro la solita strada con la sensazione unica di salutarmi, penso ad una poesia di Borges che mi ricorda che ci sono porte che ho chiuso fino alla fine del mondo e specchi che mi hanno vista per l’ultima volta che mi aspetteranno invano. Sottofondo incessante della vita domestica cui sento di appartenere, in case che sono accumulo di gesti e passi altrui, che io riproduco e ripercorro fino a farli miei, per poco.
Condivido intime immagini spaziali con persone a me sconosciute. Ho vissuto in stanze e in case ora vietate ai miei passi.
La mia casa è la mia infanzia.
Nella casa che abito a Parigi ci sono altre due immagini attaccate al muro. Spazi di uma casa para nenhum lugar inventata a Lisbona. La mia Casa per nessun luogo.