Farina d'ossa
Sdraiata sulla spiaggia a fine estate, a pancia in giù, sbircio con un’occhio verso le dune, c’è troppo sole, scorgo le nuvole lontane, striate dal vento, affusolate dita di donna, il loro passaggio bianco come una carezza lenta sul lenzuolo blu del cielo. Più in là si fanno ancora più fine, quasi fossero capelli, sottili come fili di seta, affondo la mano nella sabbia a cercare la sensazione, a trattenere il calore, e il colore, del giorno tra le dita. Come se poi la notte bastasse succhiarne la punta per restare vivi a sospirare promesse, ad ansimare menzogne. La punta delle dita che tiene in serbo grandi parole, parole solo sospese, un attimo prima di essere digitate. Preludi entusiastici che franano rovinosamente sullo scivolo della realtà: incespicano, ora, come storpi deformi. Le parole sono tali finché restano lì, nel limbo del pensiero, ma poi incarnate nel reale calano come scuri a far rotolare teste. La notte si fanno bellissime, quelle parole, risuonano bene, ammaliano e come bruciano, come risplendono nel cono di luce della luna. Parole vomitate che si ricacciano in gola, più sono sincere, più fanno male e in mezzo a loro il silenzio necessario per prendere fiato in salita, prima, molto prima, della rovinosa discesa. In discesa le ginocchia non reggono, fanno male, e si finisce lunghi tirati a terra coi palmi insanguinati.
Eravamo in un bosco buio, sentivo la schiena nuda contro il tronco di un albero. Un istante prima facevamo l’amore, quello dopo mi aprivi la pancia per nutrirti del fegato; al posto dell’intestino c’era un cespuglio di rovi, due scatolette di latta per polmoni, l’esofago era una biscia agonizzante che si contorceva, mentre la bocca simulava il volo silente di un uccello notturno. Le labbra come ali nere spiegate sull’acqua ferma del lago.
Giacevi morto ai miei piedi, invecchiato di colpo, come non ti vedrò mai e, in time-lapse, ti attraversavano i vermi, ti mangiavano le mosche, ti abitavano funghi velenosi e colorati, le mucose depredate immediatamente di ogni colore, le ossa e i loro sinuosi solchi facevano capolino; anche allora amavo guardarti. Anche allora mi soffermavo a godere della vista del tuo corpo, della tua putrefazione, ormai sottratto al gioco della seduzione, ligio solo al dovere biologico di restituire la vita con la morte. Anche allora amavo guardarti, divorato dall’interno da te stesso e, mentre ti digerivi nell’atto onanistico della decomposizione, io mi leccavo le labbra. Avvertivo la sete, avevo voglia di berti e nel contempo sognavo sangue, capelli e materie cerebrali che si mischiavano sul tronco muschioso dell’albero contro cui mi avevi scopata. Il mio cranio spappolato tra il tronco e le tue mani, ma ero ancora viva mentre carezzavo le tue ossa color avorio, in alcuni punti particolarmente bianche, in altri quasi gialle: la tibia destra, il bacino, infine poggiavo il palmo sullo sterno, una leggera pressione e poi lo sentivo cedere.
D’un tratto ti ricostruivo, ti disegnavo con le dita, da cui partivano sottili fili di ferro. Fili neri che costituivano il tuo scheletro e che poi ribellandosi mi trafiggevano, cogliendomi nella posa aggraziata del San Sebastiano di Botticelli. Ma rediviva mi accanivo di nuovo con furia sul tuo corpo esanime per smembrarti, per spargere i tuoi pezzi nel bosco; infine ti ricucivo con maestosi gesti, destreggiandomi tra ago e filo, quasi fosse una danza, e ti rammendavo con diabolica attenzione, ponendo il braccio sinistro sull’omero destro, a renderti mostro senza speranza. Così invocavo, e poi seguiva, la tua vendetta: piantavi fiori colorati nella mia bocca e nei miei occhi, le gambe e i piedi innaturalmente legati e piegati a formare una serra per il tuo giardino segreto. La mascella disarticolata ad accogliere il terriccio. I capelli fattisi radici che trapassavano il cranio e fuoriuscivano da naso e orecchie a cercare acqua e nutrimento. Con quanto amore innaffiavi la mia assenza.
E alternavamo così all’infinito la nostra morte e la nostra vita, come se vivi insieme non potessimo stare, in quel bosco ombroso, abitato da animali notturni e silenziosi, cosparso di polvere d’ossa, farina d’ossa mischiatasi alla terra fredda e umida, brulicante di vita. Giacevamo supini spiando il cielo scuro tra le foglie, come quieti amanti che recitavano una parte, riposando qualche istante prima di ricominciare la carneficina, accarezzando forse nel mentre la fantasia sessuale dell’omicidio seguente, cullando un nuovo modo di amarsi senza mai provare soddisfazione, senza mai trovare pace. Era, il nostro rincorrerci, incessante e affannoso. Era sterile e morto, come l’intero bosco che avevamo piantato e nutrito e abitato per anni.