Fregare il tempo non è cosa da tutti. Ci riescono i religiosi, gli speranzosi, i geologi, le lumache e le nonne.
Quando sei nata tu dicevi, ha nevicato ad agosto. ‘Questa cinna è un terremoto’ diceva spaventata tua madre. Ed era vero, perché a forza di ripeterlo lo diventò veramente. La seconda di quattro sorelle, tutte donne e tutte emiliane. L’anno in cui sei nata nevicò ad agosto, e ci fu pure il terremoto.
‘Tutti mi dicevano che avrei potuto scegliere qualsiasi giovinotto del quartiere, tanti filarini avevo da non riuscire a contarli con le dita’ mi raccontavi con in bocca la sigaretta e in mano le carte che mi avrebbero fatto perdere la terza partita di fila, portandomi alla disfatta.
‘Io non li faccio i ballottini, cocca, è tutto culo’. Ci credevo, come ogni cosa che mi dicevi, come se fosse una storia imperdibile.
‘Potresti lasciarmene un po’ di quel culo però nonna’.
‘Certo cocca, quando sarò morta, certo. Tocca a te far le carte, poche storie’.
In silenzio si giocava, in sottofondo solo il profumo di caffè e le cicale che cantavano appese ai grandi alberi del giardino. Eppure quel giorno la nonna voleva raccontare, una necessità che spezzava le regole sacre di scala quaranta. Così riprese, intervallando le parole alle pause dovute dal gioco, pause che conferivano quel tocco di mistero e attesa, come se dovessi venire a sapere verità importanti.
‘Pensa che una sera, avrò avuto sedici anni forse poco più. Uno dei miei filarini mi aveva invitato alla balera. Ero proprio brava a ballare veh. Ma nonna Elisa non voleva che io andassi, mi disse di andare a letto e subito. Io non ci volevo stare a letto perciò scappai dalla finestra e via a correre nel campo al tramonto per andare a fare quattro salti e ad ascoltare un po’ di musica.’
Asso di cuori, un po’ titubante ma lo scarto, pregando che quantomeno lo abbia già in mano. Mi sbaglio ovviamente. Con quell’asso scende un’altra scala. Chissà a cosa pensavo mentre speravo.
‘Poi un giorno arrivò una famiglia dal sud. Non erano per niente ben visti, erano terroni. Avevano un figliolo niente male, scuro scuro di capelli e di occhi. Visto che nessuno li voleva sai io cosa feci?
Per ripicca mi fidanzai con il loro figliolo. Toh!’ disse sorridendomi maliziosa. ‘Tutti mi ridevano dietro sai, ma io li ho fregati perché ho preso il migliore di tutti’.
Il nonno era una poltrona in particolare, era sigarette e liquore. Era anche passeggiate in montagna fino a vedere le pale eoliche, così grandi e bianche spostavano il vento a bracciate, e noi bambini sotto a correre, immaginando il monte staccarsi dalla terra e iniziare a volare grazie alla spinta di quelle maestose dame del vento. Durante le gite in montagna, tra i boschi dell’appennino tosco-emiliano, il nonno era quello che raccoglieva e distribuiva more, in misura uguale a tutti i nipoti e guidando la ciurma con il suo bastone, controllava che il passo di tutti fosse regolare, fermandosi solo in prossimità di luoghi in cui potevano nascere storie che alimentassero la fantasia di quei bimbetti saltellanti che si portava appresso. Come la casetta degli gnomi, e quel
pomeriggio speso ad aspettare in silenzio a vedere se rincasassero i proprietari. Il nonno sostenne di aver visto piccole figure muoversi li attorno poco prima di trascinarci verso casa, ormai verso sera. Per convincerci a venir via ci raccontò delle creature che vivevano il bosco durante la notte, ululati, occhi rossi tra i rovi, scricchiolii e movimenti sconosciuti. Le tigne per vedere gli gnomi ci sembravano un nonnulla in confronto alla paura.
Il nonno era una poltrona in particolare, quella più vicina alla televisione e di fianco alla finestra. Era grande e comoda ed era il trono dei riposini pomeridiani. Quando il nonno morì, la nonna ne prese possesso, come se dopo un lungo periodo di regno maschile, la donna, tuffandosi nel comodo cuscino della poltrona-trono, accendendosi una sigaretta e con occhi chiusi aspirando a fondo, prendesse la sua vittoria in una nuvola di fumo, sigillando con la sua firma l’indiscusso potere matriarcale all’interno della casa. Una poltrona come grande insegnamento da tramandare: mai fidarsi dei simboli.
‘Sarai mica come la bella Cecilia tu?’
‘Cosa nonna? Chi è Cecilia?’
‘La bella Cecilia, tutti la vogliono e nessuno la piglia!’ disse mescolando le carte ed andando a controllare lo stato di cottura del ragù, sul fuoco ormai da ore. Cottura lenta e verità spiazzanti, si potevano racchiudere così le mie visite a casa della nonna.
Suona il campanello. È la vicina che ci avverte che la gatta è davanti al portone. ‘Sembra proprio voler salire, signora Franca’. ‘E che salga!’ urlò la nonna spingendo le parole fin giù da basso lungo tutti i fili del citofono, come se la lontananza fosse un muro da abbattere a suon di decibel. Aprì tutte le porte e tornò alla sua cucina borbottando insulti.
La gatta storica della nonna si chiamava Titti, e anche quella che prese il posto alla sua morte si chiamò indiscutibilmente Titti. La Titti originale, la prima, visse per quasi vent’anni, badando e vedendo crescere tutti i nipoti. Era solita scendere in giardino ogni mattina, nel giardino grande condominiale di quei palazzoni anni settanta della periferia bolognese. Scendeva con la nonna, in ascensore. Varcato il portone una andava a fare la spesa, l’altra alla ricerca di erba gatta tra le piante del giardino, aspettando quella che rincasasse per prima. La nonna, tra le chiacchiere con le vicine e il fruttivendolo dall’altra parte della strada, generalmente si dimenticava della gatta e saliva in casa presto per preparare il pranzo. La gatta quindi, rigorosamente alle 12.30, si posizionava davanti al portone del condominio, miagolando un poco, ma principalmente aspettando che qualcuno di umano fosse così gentile da aprirle la porta.
Ormai la Titti la conoscevano tutti i condomini, a parte questa sprovveduta e relativamente nuova vicina, che quella mattina, invece che limitarsi ad aprire e salutare la gatta, decise di suonare al citofono, o meglio a tutti i citofoni.
‘Che salga per dio!’
La vicina, interdetta dal tuono di parole fuoriuscito del citofono, aprì il portone, controllando i movimenti dell’animale dall’alto. La gatta entrò, percorrendo l’atrio con passo sicuro, fece i tre gradini che portavano agli ascensori e con altrettanta certezza si fermò li davanti guardandosi indietro con fare stanco. La vicina, a cui quella mattina erano evidentemente successi troppi fatti sconvolgenti che minavano la quiete della sua routine, guardò l’animale e per quei dieci secondi che sembrarono interminabili, si guardarono, gatto e donna, in una battaglia di supremazia intellettuale le cui sorti avrebbero spazzato via anni e anni di sudata evoluzione.
La donna, com’era prevedibile, si arrese e premette il pulsante di chiamata dell’ascensore, pronta a condividere il suo viaggio con la gatta, sapendo che lei si sarebbe fermata al terzo piano, e l’animale avrebbe proseguito fino al quarto. Entrate tutte e due nell’ascensore la donna premette i pulsanti dei rispettivi piani e salutò con garbo la gatta una volta arrivata al suo piano.
‘To’ veh eccola ! Era ora!’ tuonò la nonna vedendo entrare la Titti in cucina.
Se avesse creduto nella reincarnazione la nonna sarebbe stata sicuramente un gatto.