Fino al mattino
Ciao,
come stai?
Sai, volevo scrivere per aprirmi la pancia e tirare fuori lemmi grigi, spalancare la bocca e urlare. Ma vivo congelata negli attimi degli altri e le parole si accalcano per uscire, non rispettano la fila, le frasi si accasciano le une sulle altre, come corpi gettati in una fossa, mentre mesti i pensieri sfilano dietro le palpebre.
Normalmente esiste la tregua: esco con le amiche, un sorriso, una canzone, un vodka sour, portami al mare, mamma leggimi una storia. Normalmente io sono altro. Invece ora, sono solo quello, sono il mio lavoro. Temo il mio respiro nocivo. Temo lo squillo del telefono. Mi vesto elegante tutti i giorni per andare al lavoro, mi trucco, ma non metto il rossetto, perché passo il giorno, e a volte la notte, con la mascherina a coprire il viso. Parlo con gli occhi e li sento sempre più spenti. C’è il sole e sono esausta. Fa caldo e mi accascio sul sedile tiepido dell’auto, abbraccio il volante, stiro la schiena e invidio i reclusi. Quelli che sono a casa a leggere, fare yoga, a guardare film; le loro vite in pausa le vedo lampeggiare sullo schermo dello smartphone, il loro tempo si è arrestato, mentre io continuo a corrergli dietro.
Non ricordo i nomi, le vie, i quartieri. Segno tutto su un taccuino e vado dove mi dicono di andare.
La notte non riesco a dormire, allora scrivo lunghe lettere nella mia testa. Cara Ale, mi manca la tua risata cristallina. Nel buio resto sdraiata a pancia in su. Caro Davide, è la prima volta che scanso il nickname e ti chiamo col tuo vero nome. Ti penso da qualche giorno. Mi mancano gli amici, tutti, i pochi che sono rimasti e gli altri persi nel tempo - e mi domando perché sia andata a finire proprio così. Perché mi hai accarezzato i capelli? Perché incontrandoti mi sono voltata dall’altra parte? Perché ancora fa così male la tua assenza? Perché le nostre parole non sono state abbastanza per te, quando invece lo erano per me?
Sono lunghe lettere il cui destinatario si nasconde e si confonde in mezzo agli altri, avvolto dall’insonnia. E sei tu, ma sei anche qualcos’altro, una spiegazione interrotta, la tua poesia cancellata, la sirena dell’ambulanza, il desiderio di rivederti, la disperazione di poter toccare solo corpi già morti. Mi addormento. Sono ali nere di farfalla nella bocca, poi giù nella gola, fino a sentirle volare nello stomaco: la tua paura che alimenta la mia. Le mani calde che si fanno fredde. Gli sguardi che incrocio e non posso dimenticare. Sono tutti senza volto, cerco labbra e trovo solo i loro occhi. Scrivimi ancora dei tuoi desideri, non dimenticare di accarezzarli e nutrirli ancora una volta, ancora. Perdo l’equilibrio, cado e mi sveglio sempre lì, immobile nel letto, mentre la notte avida scorre e non mi restituirà i sospiri, i sogni. La notte mi sta a guardare e sono uno spettacolo desolato, senza applausi, senza luci. Resto immobile tra le lenzuola, le mani intrecciate, gli occhi socchiusi, trattengo il respiro fino al mattino. Davvero, lo giuro, fino al mattino.