Gelo
Le acque del Piano-See riflettono un cielo altrettanto artificiale e asettico. I colori e i movimenti della città sembrano chiusi fuori da questo triangolo, ritagliato sul retro di un astratto centro metropolitano. Così come Potsdamer Platz non è una piazza, anche il Piano-See più che un lago è una piscina; le pareti che ne delimitano l’esistenza tacciono, le auto passano rade su Reichpietschufer, nascoste dai resti di una siepe. Dietro di me, le pareti senza finestre del teatro trasformato in cinema solo dieci giorni all’anno, il cosiddetto Berlinale Palast; mentre io osservo il mio respiro farsi vapore nell’aria gelida, là dentro stanno fischiando un film di Abel Ferrara. Continuo a guardarmi attorno un po’ incerto, fino a che lo sguardo non mi cade su di lei, avvolta in tre strati di vestiti, culminanti nel cappotto invernale anti-tutto comprato appositamente per gli inverni tedeschi. Non fa così freddo in fondo, almeno per gli standard locali, ma le sterpaglie scricchiolano nella morsa del ghiaccio e i rami delle siepi sembrano irrigiditi nei loro grovigli. Lungo le rive della piscina le panchine sono vuote e nessuno si siede sui larghi gradini piatti: la vita del festival cinematografico è delimitata a percorsi facilmente identificabili. Torno a interrogarla con gli occhi, è lei a sbloccarmi dalla mia indecisione cronica con un cenno del capo, avvolto nel pesante cappuccio. Avanzo un po’ infreddolito fra cerotti, lattine, vetri, ritagli di plastica e carta, intrappolati nell’ultimo gelo del nuovo millennio. Cerco di mimetizzarmi nel grigiore diurno prima di togliermi i guanti, alzare il lembo più basso del cappotto e iniziare a scavare fra gli strati. Armeggio un po’, finché non riesco a posizionarmi contro un tronco livido, che mi auguro grato per il mio caldo getto di urina. Oltre la barriera di rami secchi, le auto passano lente, nessuno fa caso a me; sulla sinistra si staglia, contro il cielo bigio, l’edificio storico di una qualche corporazione tedesca. La mia attenzione torna a concentrarsi su ciò che mi sta più vicino, noto un’ultima foglia, unica superstite nella corona di rami spogli. Come uno scherzo o una risposta alla mia presunzione di poco fa, si stacca proprio mentre la guardo e plana lenta fra la spazzatura che mi circonda. Mi accorgo solo ora di un oggetto metallico nascosto fra gli scheletri dei cespugli, troppo grande per non essere visto, eppure perfettamente mimetizzato con i residui inorganici circostanti. Mi trovo a fissare un carrello della spesa malconcio, incastrato fra rami e ramoscelli, come fosse la prima cosa che vedo di questa metropoli; non è tanto l’oggetto in sé ad attirare la mia attenzione quanto il suo contenuto. Rannicchiato al suo interno, avvolto in quello che ormai è un blocco unico di vestiti laceri e semicongelati, c’è un corpo in posizione fetale: la testa rannicchiata e nascosta da una berretta nera, le mani nude e contratte attorno alle ginocchia, immerso nel vano metallico nella parodia di una posizione aerodinamica, come un bambino vecchissimo, pronto a farsi spingere fra le corsie di un supermercato, sull’asfalto del parcheggio, per le strade della città.
Sento la voce di lei da dietro che mi chiama: hai finito?