Giacomino e la coca-cola
La prima cosa che fece uscito dall’ospedale fu andare al bar a bersi una bella coca cola ghiacciata. La ingoiò così, tutta d’un fiato, in piedi, con indosso il cappotto leggero e il berretto, col gomito destro aperto, poi pagò, salutò e trotterellò verso la fermata del tram.
Faceva freddo.
Non era abituato al freddo, aveva trascorso più di due mesi rinchiuso nel grigio edificio alle sue spalle, era entrato che ancora c’era il sole di settembre, ed usciva ora nella nebbia di fine novembre.
Faceva freddo, aspettava il tram battendo i piedi e sorridendo a tutti i passanti. Sto tornando a casa – si diceva tra sé e sé, e mamma era lì che stava, mamma lo aspettava a casa. Coi dottori aveva concordato di farle una sorpresa, doveva solo ricordarsi di chiamare in reparto per avvisare che durante il tragitto era andato tutto bene e che era arrivato. Ma adesso l’importante era prendere il tram, controllò che la direzione fosse corretta e indugiò a leggere le fermate, mentre nella testa la vocina della signora ATM declamava: v.le Monte Santo, Repubblica M3, V.le Vittorio Veneto, V.le Tunisia, si arrestò alla fermata seguente pta Venezia, viale Tunisia. L’ultima volta lo avevano beccato proprio lì. Anche se lui, a dirla tutta, non ricordava poi molto, ma così gli aveva raccontato mamma: Che figura in mezzo a tutta quella gente, ma almeno non è successo nel nostro quartiere, almeno non ti hanno visto i vicini. Come potrei altrimenti fare la spesa? Come potrei andare dal prestinaio, se tutti sapessero? Mi prometti che non lo farai più? D’ora in poi farai il bravo, vero?
Quella coca cola e quell’attesa gelida lo facevano sentire leggero, leggerissimo, come se fosse la prima volta che prendeva il tram da solo. E forse lo era veramente. Quando era stata l’ultima volta che aveva preso un mezzo da solo? Non ricordava bene, colpa della malattia o forse dei farmaci, ma era poi così importante ricordare? L’unica cosa da fare era tornare a casa, fare la sorpresa a mamma e poi avvisare in ospedale, una telefonata breve, scherzosa, giusto per far ridere un po’ l’infermiere di turno, ma comunque rassicurante Va tutto bene, state tranquilli, non voleva credessero che non fosse in grado di.
E mentre aspettava con il corpo stretto nella morsa gelida di Milano, nella nebbia, nel grigio che si spandeva ovunque, nel pavè sollevato e sconnesso, mentre il tram sferragliando si avvicinava, si accorse della grigia, enorme, cornacchia che zampettava sul marciapiede di fronte. Era vistosamente zoppa, segnata dalla natura o da una temporanea sventura, non riusciva a saltellare bene, l’atterraggio ad ogni saltello era barcollante, sembrava essere sempre sul punto di cadere, per poi di colpo recuperare l’equilibrio.
Era zoppa ed enorme, nel nero becco un lungo verme si divincolava.
La cornacchia, con un rapido movimento del capo, ingollò il boccone e spiccò il volo, lasciando la bruttura dello storpio sulla terra. Quella cornacchia ce l’aveva fatta, lei che non era affatto normale, che non era come tutte le altre cornacchie sane, lei ce l’aveva fatta. Era viva, nonostante la zampa, e riusciva a sostentarsi, nonostante ogni suo passo rischiasse di farla cadere. Il disequilibrio della vita non l’aveva annientata, bensì le aveva insegnato a trovare una soluzione istintiva, aveva così imparato a trovare l’equilibrio ad ogni costo, ad ogni passo.
Quella cornacchia era come lui. Quella cornacchia non era normale.
E, salendo sul tram, quello fu il suo primo pensiero: io non sono normale e non lo sarò mai. Sono speciale, come dice mamma. Restò in piedi, in fondo, a fissare i binari, che regolari scorrevano sotto, le foglie morte tutte attorno, sparse e disordinate. Chissà se su quel tram erano davvero tutti normali, chissà se il tranviere, con le figlie da mandare all’università e l’ex moglie che chiedeva soldi, era normale o se la ragazza giapponese con le lenti azzurre e il paraorecchie peloso era normale. E il vecchio col bastone? Non era forse uno storpio anche lui? Chissà, magari da giovane era stato normale: sano, robusto, forte, lavoratore indefesso. E ora a malapena riusciva a salire i tre gradini che lo separavano dal portone di casa. Anche lui, dunque, era un po’ strano; non più veloce, non più produttivo, era, per le sue nipotine, il nonno con cui giocare e inventare storie, ma per tutti gli altri era solo un vecchio col bastone. C’era, nel mondo che lo circondava, qualcosa di realmente normale? La signora troppo grassa pareva, per l’appunto, tendere all’obesità, mentre lo studente che le stava accanto aveva gambe magre, troppo lunghe, le ginocchia a punta protese verso l’alto come guglie. Forse erano tutti anormali, tutti ridicole caricature di una normalità ostentata, grottesca e crudele. La signora grassa era, molto probabilmente, una buona cattolica che ogni domenica andava a messa, e questo la faceva sentire normale, socialmente accettata, e condannava, di conseguenza, la nuora per non essere altrettanto solerte nel coltivare la sua fede.
Gli chiedevano di essere normale, in un mondo di normali, ma lui faticava a trovare un punto fermo nell’ondivaga realtà. Gli sfuggiva il criterio che definiva quel mondo, quel modo di stare al mondo, come normale. Era come se gli fosse stato precluso qualcosa, come se la normalità stessa non fosse altro che una serie frammentata di proiezioni esterne, che si faceva però diktat interiore nel singolo e generava comportamenti correttivi, volti solo a sembrare il più possibile normale, a renderlo invisibile nella folla. Invisibile: lui, un omone di cinquant’anni, alto un metro e ottanta e grosso come un armadio. E mamma? Mamma era normale? Seduta davanti ai quiz televisivi, avvolta nello scialle logoro che le aveva regalato papà un compleanno di tanti anni prima. Mamma, che aveva seppellito fratelli, sorelle, un marito, e che, ormai anziana, viveva con l’unico figlio e la pensione da vedova. Mamma non aveva mai lavorato. Era normale mamma? Le donne di adesso lavorano tutte. Forse lui non era l’unico speciale qui fuori, forse erano tutti un po’ speciali, ma di certo qui fuori la crudeltà era tanta. Era diversa, tangibile, la crudeltà era uno schiaffo in faccia in ogni gesto quotidiano. Ricordava bene lo sguardo pietoso che il salumiere aveva rivolto a mamma, quella volta che aveva provato a fare la spesa da solo e non era riuscito a ordinare correttamente due etti di crudo dolce. Aveva presente lo sguardo duro e bruciante della gente che lo riconosceva come strano, bizzarro. E ne aveva paura. Lo ammetteva, Mi fate paura – diceva.
Aveva paura che la crudeltà umana si palesasse con inaudita violenza, così restava chiuso in casa per giorni, settimane, mesi. Mentre mamma scavava solchi nel tragitto casa-supermercato. Una volta al mese in farmacia a comprare i medicinali. Mamma era lì, a casa, che lo aspettava, solo poche fermate lo separavano da lei, dal divano sfondato, dal cucinotto ingiallito, dalle foto di famiglia, dall’essere la sua unica ragione di vita. Mancava poco per raggiungerla, così poco.
Quando la signora ATM disse: “pta Venezia, viale Tunisia” si scaraventò giù dal mezzo, attraversò dall’altro lato della strada e, prendendo al volo il tram in direzione opposta a casa, tornò in ospedale, da dove era uscito appena mezz’ora prima. Salutò all’ingresso e salì in psichiatria, venne ad aprire l’infermiere di turno: Ma come Giacomino, sei già qui? Non dovevi andare a casa?
“Hai ragione, ma sai, tutto sommato, sto meglio qui. Cosa c’è per pranzo?”