Giro di boa
Sogno.
E sogno una fellatio perfetta, o almeno per me che la sto facendo. Sogno, ma non ti vedo, ti sento. E sono di carne, di ossa e muscoli, sono fatta di sangue e saliva e capelli. I miei capelli – “Quanti capelli che hai”. Sono immensa, ho una bocca rossa, che si fa sempre più grande finché vieni e ti ingoio, ma per intero. Ti mangio tutto, i miei arti si allungano e divento acqua, acqua di mare, nera, liquida; mi sciolgo e risorgo creatura marina. Sono un immenso drago d’acqua, che avanza sulla spiaggia mangiando sdraio e ombrelloni, prosegue e trangugia il Naviglio grande – poi non dite che a Milano non c’è il mare – con la sua movida, le “e” aperte di chi non sa pronunciare correttamente “tre”, i braccialetti al polso sinistro e i piercing sulla lingua, si mangia i tram, le rotaie, il pavè, si porta via le chiese, le piazze e i viali alberati.
Divoro tutto quello che incontro e, a ogni passo, mi faccio sempre più grande, enorme massa d’acqua senza forma. Io sono acqua, arrivo ovunque, mi prendo tutto, sommergo tutto. E sogno.
Sogno.
Sogno l’ultima volta che ho fatto il bagno nuda di notte al mare; l’acqua è calda, come se fossi al sud della Spagna, ma qualunque mare in realtà è caldo e accogliente la notte, come una bocca - com’è calda la tua bocca, che sa di vino e di tabacco. Vorrei allungare la mano e sfiorarti i capelli, ma resteresti freddo al tocco, così resto immobile col desiderio sospeso. Il mare è una di quelle poche cose che la notte sa tenerti al caldo, che veramente ci potresti finire dentro, che veramente basta un niente per lasciarsi andare e da nudi è ancora più bello, perché confonde e non capisci bene dove stia il confine tra il tuo corpo e l’acqua che ti sta attorno e ti attraversa. Le onde confondono, seguo il movimento e il limite si annulla, si perde, il mare che mi sostiene i fianchi come due mani forti di uomo e che prende senza chiedere il permesso. Sulla battigia non c’è nessuno, così esco dall’acqua, prima di lasciare che la corrente mi porti lontano da riva, prima di perdermi sotto il velo dell’acqua - sarebbe così facile trattenere il respiro e immergersi nell’acqua scura. Qualcuno sta facendo bisboccia sugli scogli, ma è lontano, non gli presto attenzione. Sì, sono sicuramente in Spagna, lo capisco dalla cadenza del vociare e da come si muove il corpo, che avanza con la giusta sicurezza di chi si sente a casa. Esco dall’acqua e ti trovo seduto a porgermi il telo per asciugarmi. Sei vivo, non ti ho mangiato. Sei ancora qui, non te ne sei mai andato.
“Siamo quelli con le spalle larghe” avevi detto quella sera, proprio così. Le mani e la bocca e il respiro affannoso, tutto questo e molto di più. Molto di più. Eri una principale senza predicato verbale. Tutto questo e molto di più. Mi sveglio, perché so che ogni periodo deve avere un verbo che lo regga, con le sue spalle larghe.
Mi sveglio e sono delusa del non essere al mare, di non essere nuda e bagnata la notte su una spiaggia spagnola.
Vero, siamo quelli con le spalle larghe, quelli che le cose, in un modo o nell’altro se le mettono via, magari un po’ goffi, anche un po’ approssimativi, ma un modo per tirare dritto lungo la strada lo troviamo sempre.
E così abbiamo fatto - complice anche il fatto che quelli con le spalle larghe hanno tanti fardelli da portare, insomma, non ci si può mica voltare indietro. Perché farlo significherebbe arrestarsi e non si può; come muli bisogna trascinare il carro fino a destinazione.
Cosa c’era in te che mi avrebbe fatto restare contro ogni logica? Cosa mi restituivi di nuovo? Cosa vedevo in te che negli altri non riesco a scorgere?
Mondi diversi, nemmeno paralleli: una vita bizzarra, al contrario, fuori posto, tenuta su alla buona con un po’ di musica e qualche birra - non ho trovato altre somiglianze.
In te mi pare di aver intravisto qualcosa di me, sentimenti brutti, tristi, ma conditi col candore dei bambini, la grigia rassegnazione, ma anche il guizzo vivace di un’idea brillante, la paura, tanta, tantissima paura, in quelle mani grandi che potrebbero scardinare il mondo, se solo volessero. Non saprei dire che cosa tu possa aver trovato in me, a me parevi casa, ma forse mi sono sbagliata e mi piaceva solo quello strano riflesso che mi davi. Perché avevo proprio l’impressione di essere guardata con occhi nuovi, diversi, tanto che mi sentivo io stessa nuova e diversa. Così fragile proprio non mi ero mai vista, docile men che meno; eppure mi costringevi alla resa e non me ne crucciavo, non domandavo, non resistevo caparbiamente, bensì mi dimostravo arrendevole, a tratti addirittura dolce e luminosa, piccola e, per questo, immensa. Questo mi riportava il tuo sguardo, e forse mi sono persa in quella me sconosciuta o mi sono invaghita della sensazione. La sensazione di brillare nel buio, quando ti avevo addosso e il resto del mondo non scompariva, ma trovava un equilibrio, come se tutte le cose, di colpo, avessero trovato il loro posto. Il posto giusto, insomma, quello che ti fa venire voglia di fermarti lì, scaricare il carretto e restare in pianta stabile. Ma, sicuro, era un abbaglio, un momento di confusione. Le onde del mare che si poggiano sulla battigia e un attimo dopo, timorose, si ritraggono - ecco cos’era.
Abbiamo le spalle larghe, fatte apposta per portare gli zaini e pedalare. Sono giuste giuste per tirare dritto, per fare due bracciate e arrivare alla boa. Poi alla seguente e a quella dopo ancora, le spalle larghe che non ti lasciano in alto mare, ma ti portano lontano. Così lontano che quasi non ti vedo più.