Giugno
Questa settimana non riesco a scrivere. Sono troppo tirata, c’è troppo da fare. È arrivata di colpo l’estate, come quando ti aprono all’improvviso le gelosie e ti sorprendono addormentato e rincoglionito in un letto sfatto. No. Sono quelle cose brutte, che no. Come quando ti infili sotto la doccia in albergo, dopo 8 ore di treno, e ti accorgi che il bagnoschiuma è rimasto sul ripiano del lavandino. No. Sono cose brutte, che non si fanno. Soprattutto perché odio il bagnoschiuma, preferisco la saponetta classica che si sciacqua via in fretta, senza lasciare la sensazione di bava di lumaca sulla pelle. Che fastidio.
È arrivata l’estate con quelle sue temperature estreme, esteticamente imbarazzanti: sudiamo, puzziamo, ci disidratiamo. Vorremmo mostrarci belli, ma siamo ancora bianchi come cenci e al massimo possiamo sfoggiare l’abbronzatura da magütt guadagnata col sudore della pedalata. È arrivata l’estate, si sbava l’eye-liner, ma non siamo Amy Winehouse, e quegli shorts bellissimi resteranno nell’armadio fino alla prossima stagione, con l’obiettivo di dimagrire, ma la fame sarà sempre lì in agguato ad aspettarci in ogni minuto della giornata e a ricordarci che in quei pantaloncini non ci entreremo mai più. È arrivata l’estate e vorremmo essere al mare, invece lasciamo impronte di anfibi nell’asfalto molle, che vuole mangiarci il piede e pure l’anima. Vorremmo che l’estate fosse come nella pubblicità del Brancamenta, invece no. L’estate toglie tutta la poesia: il caldo, le zanzare, le lenzuola come un sudario la notte, la crema solare, l’eritema, il sole che non si spegne mai e noi che si continua a pedalare con lo zaino sulle spalle.
Questa settimana non riesco a scrivere perché c’è troppo sole e mi sento stanca. E poi che titolo metto? Non posso scrivere anche per questo motivo: ho un problema serissimo coi titoli.
I miei libri preferiti hanno titoli banali.
I miei album preferiti hanno titoli normali, da album, appunto.
Le bozze che scrivo vengono salvate così: “porco dio” “dio cristo” “cazzo merda” “maremma maiala”, etc. Questi sono i titoli standard che assegno ai file word. E siccome scrivo un po’, capita che word mi ricordi “esiste già un documento che si chiama porco dio vuoi sostituirlo?” No. E così mi trovo con un “porco dio” qua e un “porco dio 2.0” là. E poi devo aprire entrambi per riconoscere il testo e magari, magari eh, aggiornare il titolo e salvarlo con un altro nome. Ma fin tanto che sono bozze, restano così, bozze anonime come gli alcolisti o come le bestemmie. Le bozze volano, come l’alcol e le bestemmie, appunto.
Qualcosa di simile mi succede anche con le playlist, mi metto lì bella concentrata e penso a tutta una serie di canzoni che vorrei sentire in carrellata, poi Spotify mi chiede il nome della playlist e io vado in panico.
Una volta volevo fare una playlist ignorante con Renato Zero e Tiziano Ferro, l’ho chiamata “suka” e 20 minuti dopo ho aggiunto Fossati.
Perché?
Perché ho aggiunto Fossati ad un playlist che voleva essere trash e che ho chiamato “suka”? Parto con dei buoni propositi, ma poi prendo sempre la piega sbagliata e mi tocca aggiornare il nome. Perché i nomi delle cose hanno un peso.
I nomi delle liste, i titoli da assegnare mi tagliano le gambe, vorrei sempre rispondere “cazzo ne so”. A me sta bene scrivere, i titoli alle cose metteteceli voi. A me sta bene mangiare e cucinare, il nome a sto piatto mettetecelo voi (per me tutto rientra nell’opzione “svuota frigo”). E poi tutta questa mania di mettere i titoli non vi spaventa? Il titolo, le etichette non riducono le potenzialità del testo e della musica? Io le etichette proprio non le sopporto, perché mettono limiti, perché definiscono i confini di cose che non dovrebbero averli.
Fa caldo. E ho ancora il piumone sul letto perché settimana scorsa c’erano 12 gradi. Adesso 30º. Io questa settimana non scrivo, mi rifiuto, sciopero. Sciopero perché ho ancora dei cappotti da portare in tintoria e perché devo tirare fuori i sandali.
Sciopero, e non scrivo, non penso, non sento. Mi assento, vado in vacanza da me stessa.
E mentre ero in vacanza da me stessa mi sono ritrovata a un corso di shibari a fare la bottom, perché in un momento di epochè l’unica cosa da fare per sentirsi vivi è dimostrarsi ancora in grado di sentire qualcosa. Che stanchezza. E che fatica. Però.
Però che bello stare in un abbraccio fatto di corda. Anche se sega la pelle pare meno dannoso degli abbracci fatti di carne e ossa, di caldo, di sudore, di troppo umano per me, anche no. Io volevo un Martini dry e una sigaretta.
Che poi mentre slegavo la bici è passato un ragazzo del corso e mi ha salutata col mio nome, il mio nome vero, mi ha proprio detto: “ciao £$*#%” e sono montata in sella con un buco nel petto perché ho realizzato di colpo che non mi hai mai chiamata col mio nome, ché il mio nome non si poteva dire. Perché il mio nome era uguale uguale a quello della tua fidanzata ufficiale, mentre io ero il fantasma. Il fantasma di me stessa. E il caso ha voluto che proprio uno sconosciuto, che fa il corso di bondage con me, mi ricordasse il mio nome. E allora diamo i nomi alle cose, per dio! E allora diamo un fottuto nome anche a questa bozza, togliamola dal limbo degli spettri e trasformiamola in realtà.
È giugno e fa caldo, tienimi stretta.