Good time for a change
[Interno, ufficio. Domenica pomeriggio. Intorno a me solo silenzio, a tratti grida soffocate provengono dai palazzi: la Roma avrà fatto un gol.]
Piove, e ai malinconici succedono cose strane quando piove o quando salgono sui treni: ricordano tutto. Allora ritornerò a Parigi per cercare il bottone della mia giacca perso sette anni fa. Cambierò il mio destino, le mancanze, le attese. Mi comprerò una penna. Scriverò sul retro di vecchi scontrini e poi li perderò.
Dopo aver superato anche l’impossibile penso che alla fine morirò travolta dai miei stessi pensieri. Mi ucciderà quella valanga di parole generate da anni di elucubrazioni che mi porto sopra le spalle. La mia spietata voglia adolescenziale di esplodere si è trasformata nella voglia di andare in frantumi. Sicuramente sono più arrendevole di prima.
Eppure, non sono affatto pretenziosa mi accontento e mi sento felice con poco: mi basta il sole settembrino, i bambini che gridano all’uscita di scuola e una finestra aperta dalla quale entra tutto il vento del mondo. Un pomeriggio filtrato di turchese, una giravolta e lo scorcio di strada che si vede al ritorno dal lago. Poi però, di nuovo, tutto si trasforma inevitabilmente in pioggia e trovo conforto solamente nei tavolini di un bar fatto interamente di legno in una fredda domenica pomeriggio, la prima dopo molto tempo.
Questi ultimi anni sono stati sentimentalmente difficili, vorrei scriverti una lettera lunghissima ma tutti dicono che è meglio di no, che le persone vanno lasciate dove vogliono stare, anche lontanissime. In quest’era di sentimenti tecnologici vorrei spedirti i miei fogli, le mie tristezze, gli inchiostri, tutte le mie distrazioni, i rumori che faccio con la bocca quando rido, le mie rughe d’espressione, il neo sulla punta del naso, la costellazione che ho sotto il gomito sinistro, le labbra screpolate, i miei magoni, le canzoni più belle suonate durante i concerti della vita - che poi sono i baci che avrei voluto dare ma che sono rimasti incastrati da qualche parte, fermi nel tempo e nello spazio.
Mi manca chiederti come stanno le tue pareti e lo specchio di fronte al tuo letto, se quando ti guardi vedi ancora un uomo imprigionato. Vorrei chiederti se ascolti ancora Il teatro degli orrori o se sei diventato più quieto, se leggi ancora le cose che scrivo o ti ci sei semplicemente abituato. Vorrei chiederti se adesso sai cosa fartene di tutta questa vita che ti resta, se per caso c’è un po’ di spazio anche per me, se stai bene dove stai o vuoi ancora andartene altrove.
Ma non lo faccio. Mi siedo attorno a un tavolo con le mie amiche e a mani giunte e dico:
«forse ho imparato a volermi bene».
Sorridono soddisfatte. A me invece viene solo da piangere.
Mi servirebbe un bacio proprio qui dove sto marcendo.
Poi c’è questo nuovo ragazzo che mi piace e da quando mi chiama per nome sono visibilmente più sorridente, che come diceva Pier Vittorio Tondelli: non c’è nulla di più magico che chiamarsi per nome. Può sembrare sciocco, infatti non l’ho mai detto a nessuno, però mi piace sentir pronunciare le prime tre lettere del mio nome da un’altra bocca che non sia la tua, da un’altra voce che nasce da una gola che non ho mai esplorato e che ha mille sfumature nuove che non so ancora dove mi sapranno condurre.
Come mio solito però, tendo a dimenticare facilmente tutto quello che durante il giorno mi fa stare bene, allora la sera torno a casa e mi sento come una pianta di basilico che se gli dai troppa acqua muore e muore pure se gliene dai poca. Ma faccio questi pensieri solo perché per strada ci sono troppe pozzanghere nelle quali specchiarmi e non ho ancora capito quale sia il mio vero volto.
Penso che se fossi stata capace mi sarei amata da sola, passando ancora molte notti da sola con Lucio Dalla e David Bowie. Ma forse è proprio questo il problema: sono diventata una vecchia dai bisogni disperati e nessuna voglia.
A volte mi dispiace quando qualcuno, con l’espressione convinta e gli occhi pieni di pietà si rivolge a me dicendo: «peccato che le persone non si accorgano quanto hai da dare».
Mi dispiace che le persone pensino a me come ad un bancomat.
Mi dispiace perché mento costantemente a tutti dicendo che sto bene e sto bene da sola. Ma poi lo so solo io quant’è stato brutto quest’estate, a quel concerto, non ballare la canzone più romantica della band: avevo gli occhi umidi, le mani strette dentro due pugni, il corpo fermo immobile in mezzo a una folla che ondeggiava e tremava, mentre io rigida con il sudore che cadeva dalla fronte, dal naso, dietro il collo fino alla fine della maglietta non riuscivo neppure a pensare a una soluzione imminente per quella cazzo di malinconia distruttiva.
Vorrei che non diventassi un vorrei, che ci sarà sempre molto di me in quello che non scriverai, che non smetterai mai di cercarmi nel vento tra le foglie, nei ricordi di un viaggio e nei desideri spezzati. Vorrei che ti ritrovassi a piangere nel mezzo di una festa perché qualcuno, senza pensare, metterà nelle casse quella canzone lacrimogena che ascoltavamo sempre assieme e che ti farà sempre un po’ male. Vorrei che venissi a contarmi le vertebre, le cicatrici, le rughe e tutte le volte che non c’eri, perché quelle sono più visibili di tutto il resto. Vorrei esserci quando il soffitto ricambierà il tuo sguardo e capirai che è tutto un lavoro di selezione dei momenti che ti tengono in vita, nient’altro. Che è per questo motivo che scrivo, questo il motivo che mi fa perdere tanto tempo dietro alle parole più che alle persone. Mi hanno voluta miope e incapace di mettere a fuoco i momenti preziosi attraverso la lente di una macchina fotografica. Forse è stata proprio questa la mia più grande fortuna.