Grazie
C’è un momento, mentre le ire del tempo tardo-capitalista distruggono ogni spiraglio di felicità, in cui riesco a nascondermi perfettamente da tutto. E forse, un po’, da tutti. Quel momento non è adesso, non è mentre sono in auto, non è mentre faccio colazione, non è in una stretta di mano al nuovo nome che dovrò ricordare, fallendo, richiedendolo, salvandolo sul telefono nel migliore dei casi.
Il tempo in questa porzione di epoca è mio nemico e io, che sono ancora piccolo, perdo. Perdo con grazia e garbo la più parte delle volte, ma perdo malamente le volte in cui, se ci penso adesso, peggio mi sento. Peggio e meglio, direzioni senza limiti. Nel mio caso il peggio è davvero sconfinato, posso viaggiare ben oltre il centro della terra nelle profondità peggiori verso cui sprofondo tutte le volte che il tempo principale in congiuntura con altri tempi più piccoli, decide di schiacciarmi. I mezzi di trasporto sono belli quando non li usi. Il tempo è bello quando non lo perdi, perché è letteralmente impossibile perderlo. Al massimo, proprio in quel dato momento, lui perde te, facendo sparire le tracce alla meno peggio (appunto). Quando viaggio può succedere che sia la fine se non battaglio bene contro il tempo disposto ordinatamente di merda, che è proprio quel tempo che separa due attività e due punti.
In questi anni di trasporto di me stesso da un punto all’altro sono:
- Morto un numero imprecisato di volte a bordo di un treno, che è arrivato sano e salvo a destinazione
- Schiantato con l’aereo durante il decollo alcune decine di volte, senza alcuna turbolenza e dormendo la restante durata del viaggio
- Deturpato o gravemente invalidato nella carrozzeria di veicoli non guidati da me
- Umiliato da solo per ogni singolo sbaglio, cattiveria più o meno gratuita e ogni peccato capitale commesso nei confronti di persone care mentre conducevo l’auto a destinazione
- Annegato, per giunta soffrendo un freddo boia, tutte le volte che ho messo piede su un’imbarcazione che si allontanasse di almeno 4 metri dalla costa
Arianna direbbe di me che sono un ansioso, forse lo direbbe anche chi non pratica la professione dello psicoterapeuta. La verità invece, dietro cui infelicemente ma felicemente mi nascondo, è che tutte queste morti sono avvenute sempre e solo per colpa del tempo che mi schiaccia la testa sotto il pelo della sopravvivenza e mi permette di vedere la mia morte in quei centesimi di secondo in cui stacco gli occhi o il pensiero dalle cose con cui riempio -magicamente- la mia esistenza di persona affannata e preoccupata.
Vorrei dire pubblicamente che il punto non è lavorare o non lavorare, il punto è che a me sta sui coglioni fare qualsiasi cosa nel momento in cui vorrei non farla. Che è banale, ma io credo anche che a quelle tribù che vivono senza smartphone, senza PlayStation e senza Barbara D’urso questo tipo di desiderio non venga. Probabilmente dormono con un occhio aperto perché quel leone di montagna oggi non prometteva niente di buono ma poteva andare peggio, potevano ricevere da Amazon il loro primo iPhone o l’assistente Alexa per chiedergli se fuori dalla capanna in paglia, magari, piove.
Quindi stamattina mi sono svegliato di cattivissimo umore, perché avrei avuto modo di fare ogni cosa secondo la mia tabella di marcia assolutamente improduttiva e in balia degli eventi. Tabella che mi avrebbe di sicuro condotto ad alzare la testa per un attimo, accorgermi che questa faccenda del tardo-capitalismo è la solita merda irrisolta e viviamo in una feroce infelicità e abbacchiarmi almeno due minuti sul fatto che mi pesa davvero tantissimo, questa faccenda.
Invece è stato un bel lunedì di merda come gli altri e non ci ho pensato nemmeno per un attimo.
Grazie liberali, per tutto questo.
Grazie Margaret Thatcher, per quella volta.
Grazie a me, che mi ci impegno.
E pure grazie al cazzo.
Grazie.