Ho sentito la tua voce in una conchiglia
È un giorno di metà maggio, salgo sul treno regionale diretto alla stazione di Roma Ostiense che è appena mattina, con gli occhiali da sole sul naso e l’esame di Filologia Romanza che pesa sulle spalle come un macigno biblico, facendo assumere alla schiena una forma incrinata, all’epoca ancora poco familiare e che invece oggi - a cinque anni di distanza - ritrovo di fronte a tutti gli specchi che incontro.
Salgo sull’autobus diretto verso via Togliatti in maniera frenetica, impazientita, paranoica, e raggiungo il sedile prescelto che ormai ho il fiato grosso. Un altro finestrino, un'altra storia d’amore.
Sono mesi ormai che percorro il tragitto fino a quella strada trafficata di Roma con gli occhi chiusi, ancora addormentati, pieni di brina ed esiziali pensieri; citofono, salgo le scale di quella casa che profuma sempre di pulito, bevo il caffè, fumo una sigaretta e se è un giorno buono ripeto sul balcone finché non si fa sera.
Tragiche abitudini che con ogni probabilità ricorderò per tutta la vita.
Durante il pranzo, molte decine di notifiche iniziano a sovrapporsi l’una all’altra sullo schermo del telefono fino ad allora rivolto a faccia in giù, facendomi girare la testa e perdere sicuramente la cognizione del tempo e dello spazio. Un tempo e uno spazio che da quel momento, sarebbero cambiati per sempre.
È stato in quel giorno caldissimo di maggio, mentre le cicale sonore cantavano e i passeri nascosti tra gli alberi cinguettavano senza sosta; è stato dentro una frase brevissima, dentro una manciata di secondi, che sono diventata adulta.
«È morto Marco.»
Io e lui eravamo stati compagni di banco per tre anni. Banchi di legno, traballanti, che ci hanno sicuramente fatto crescere, cambiare testa, gridare animatamente e pure molto soffrire.
Nel nome Marco, risiede la mia personalissima storia di cura e integrazione; è stato la prima persona ad avermi accolto, la prima ad avermi parlato.
Ero appena entrata in quella scuola di provincia come una forestiera: con mestizia e aria cheta. Tutti gli altri si conoscevano già dalle scuole elementari, alcuni anche da molto prima. Per loro, io ero giunta fin lì come una naufraga, su una zattera o un veliero fantasma; partita da una terra molto lontana, da una vita complicata e misteriosa, ma solo dopo aver trascorso lunghi periodi insieme alla maga Circe e alle antiche sirene odissiache nel golfo di Salerno.
Come mai non ti abbiamo mai vista? Dov’è Bologna? Perché sei andata via da casa tua? Perché non segui l’ora di educazione fisica come tutti gli altri?
Perché cammini così male?
Non posso spiegarlo, scusate, non riuscirei a farvelo capire e a dirla tutta, non ho nessuna voglia di provarci.
Marco invece mi ha presa per mano, forse in silenzio, con una delicatezza che è rimasta incastrata lungo tutti gli anni che hanno seguito quel periodo.
È stato lui a chiedere alle mie compagne di classe di includermi nelle loro chiacchiere, lui che mi ha fatto ascoltare Caparezza per la prima volta, ancora lui che mi ha spinta a parlare con voce moderatamente alta e a dirmi che non avrei certo dovuto vergognarmi di nulla, tantomeno di mostrare quella storia che a lungo ho taciuto per necessità e sopravvivenza.
Le gambe molli, il fiato corto. Non avevo fatto in tempo a chiedere neppure come fosse accaduto; dentro la mia testa i ragazzi di vent’anni non muoiono e se succede è per distrazione o tragica sfortuna.
Ci ho messo molto tempo per riuscire a metabolizzare quella mattinata, a raccogliere tutte le parole che si erano autonomamente generate nella mia testa.
Sono restata in silenzio più del solito minuto convenzionale, sono restata in silenzio per ogni minuto che abbiamo trascorso assieme.
In quei giorni irreali di quasi estate, ho cercato di superare la rabbia, l'incredulità, ho tentato di riprendere dai cassetti della memoria tutti i ricordi che mi avrebbero ricondotta a lui, per riuscire ad aggrapparmi per sempre anche ad un insignificante dettaglio. Ogni respiro, si faceva amnesia.
Ormai, era un po' di tempo che non ci vedevamo più: quando sai che le persone sono lì, che vivono la loro vita, non te ne preoccupi perché “tanto a me non succede”, “tanto le persone a cui voglio bene sono immortali”.
Ad un certo punto però – prima o dopo - ti coglierà alla sprovvista la presa di coscienza più lacerante che l’essere umano possa conoscere. Una notte ti sederai al bordo del tuo letto, tutto sudato, dopo esserti accorto della rotazione della terra attorno all’asse polare, e per la primissima volta sarai sicuro di una cosa: tutte le persone se vanno e alcune senza neppure riuscire a dire addio.
Basta distrarsi un attimo: la tristezza è un risucchio all'indietro che ti riporta pure in tutti i luoghi desertici dove avevi piantato la bandiera della resa.
All’inizio, la sua dipartita era rimasta circoscritta alle persone che gli avevano voluto bene anche solo per un istante. Davanti quella chiesa di marmo bianco ci siamo riconosciuti e rincontrati tutti quanti, dopo parecchio tempo e sicuramente parecchia vita. Sono bastati un paio di sguardi penetranti per ritornare ad essere i ragazzini che eravamo stati e che avevamo lasciato qualche passo indietro; sono bastati un paio di sguardi fugaci per capire all’unisono che da quel momento in poi, saremmo stati caricati di un’atroce responsabilità: quella di ricordare.
Sono bastate però anche poche settimane, affinché il nostro piccolo paesino di provincia fosse invaso dalle telecamere, dai pettegolezzi, dalle indiscrezioni; noi, sempre così narcisisti e velleitari, ci siamo ritrovati al centro esatto della ribalta, questa volta senza chiederlo, certamente senza volerlo. Non così, non con questa violenza.
Di quel periodo continuo a ricordare poco, se non l’eco che si è propagata fino ad oggi e che ha assunto la forma di un dolore lancinante, fatto di parole confuse, gesti inconsulti, lacrime e bugie penetranti e intollerabili.
In questi anni ho capito che la realtà è un’offesa che spesso fa ammalare. E me ne rendo conto soprattutto durante questi periodi di ricorrenza, quando il suo nome e cognome vengono pronunciati da voci straniere, nel senso latino del termine: «extraneus», estraneo, senza legame affettivo.
Marcovannini, nome proprio di persona. In seguito, leitmotiv dilaniante di quella televisione del terrore di cui tanto abbiamo bisogno, per sentirci - in qualche misura - fortunati.
Riplasmare il naturale, confonderlo con i ricordi, con le letture, rovesciare la dittatura dell'attualità, rendere il reale meno miserabile: forse, solamente così ci si potrebbe convivere, addirittura salvare.
Scremare, sorvolare, diradare. La leggerezza è in un verbo.
Ma innegabilmente, la vita da quel giorno per me ha perso un po’ di poesia.
Caro, tra gli scaffali della libreria ho ritrovato la conchiglia che mi hai regalato l’ultimo giorno di scuola, il giorno in cui le strade di tutti si sono divise e io non riuscivo a smettere di piangere.
Con un gesto teatrale, l’ho portata all’orecchio e ho strizzato forte gli occhi.
Sciocco da parte mia, pensare di poter sentire pure solamente un tuo sussulto salire dal fondo di quella, come non avesse una fine, come non fosse inanimata, come tu non fossi in un altrove inesplorato ed evanescente. Magari in fondo al mare, o nel punto più alto del cielo. Sicuramente, non qui.
Com’è che diceva, quella vecchia canzone dei Marta sui Tubi?
«Caro Marco, ti scrivo dal profondo del mare […] Quando ne ho voglia, alzo gli occhi e guardo il sole attraverso un milione di miliardi di metri cubi d’acqua e finalmente, non mi bruciano più gli occhi.»