I miei piani
Lo yo-yo l’ho usato due volte: rotto.
Lo yo-yo l’ho ricomprato: l’ho rirotto.
Lo yo-yo l’ho comprato credo una terza volta: non ho memoria di che fine ha fatto.
Stupido, che cazzo fai, mi ammazzo, mi seppellisco. Un gioco di merda, era estate, andava di moda. Mai avuti grandi amici, meglio il campetto, meglio leggere. Non vado al campo solare, mi sta sul cazzo.
Ci vado due volte, due anni e poi basta, bado a me stesso. Mi stanno sul cazzo tutti. Il primo anno faccio amicizia con ragazzo disabile, credo fosse distrofia adesso che ho letto a sufficienza pagine e pagine di Wikipedia. Mai più visto o sentito, non c’erano i cellulari. L’anno dopo vado più vicino a casa, tant’è che ci vado in bici. Il momento più bello della giornata: mentre sono in bici.
Mi rompo il cazzo, mi sento in colpa, mi sento completamente inadatto alle persone che ho attorno, sono tutti coetanei, mi sembra che stiano tutti meglio di me. Scopro il pirografo e che mi piace l’odore dolciastro del legno che brucia. Proiettano Mrs Doubtfire. C’è libertà di non guardarlo, sono l’unico in sala con un ragazzo in carrozzina, ride moltissimo. Pure io.
Rompo lo yo-yo comprato al centro commerciale Gallia: una sequenza di negozietti sotto un portico di cemento nella periferia residenziale dove insiste la mia vita da pre-adolescente. Il pallone nello zaino. Ho i polpacci grossi. Sono più basso di molti, non me ne frega un cazzo. Ho dentro questo yo-yo che si rompe, chiedo i soldi a mia nonna, lo ricompro, si rompe di nuovo, cerco di usarlo un po’ rotto ma va una merda, ci resto male. Ci resto sempre male e allora chiamo mio padre che mi dice che va bene, cosa vuoi che sia, costa poche migliaia di lire. Sento sempre la voce di mio padre che fa, che dice, che disfa, che rimette in ordine, che sta lì, che ci pensa lui, ci pensi te, ci facciamo una roba assieme. Vieni al giocare al campetto, pà. Andiamo a pescare, pà. Insegnami a guidare l’auto, pà.
Mai avuta la paghetta.
Rompo lo yo-yo. Spacco tutto.