Caro Marno,
la city mi ha inghiottito con tanta prepotenza da darmi le vertigini. Questo vorticare di luci e passanti, questo turbinio intricato e labirintico, mette a soqquadro l'intera disposizione dei miei organi. Ehi, sono un germoglio del XXI secolo, III millennio, occidentale comodo sano e pulito, con netflix, i festival, le playlist su spotify, l'oki mattutino, le graphic novel e la seduta dallo psicoterapeuta ogni mercoledì pomeriggio. Quanta bellezza, quanta dinamicità! Traslucido il mio corpo irrora giovinezza da ogni poro, da ogni orifizio. La mia pelle è liscia e scintillante, le mie ciglia nere come pozzi, persino il mio cazzo profuma di aloe vera karitè e altre mille fantasmagoriche fragranze. A pranzo e cena lunch box di falafel hummus e topinambur, pagato e diligentemente atteso al lisergico furgoncino turco giù all'angolo; qualche volta pure a colazione. Quando fumo e lo schimico morde le viscere invece mi infilo al take away (cinese), o al greek food, mi rifugio tra le spezie, e le stampe di Nanchino e del Pireo, incorniciate dall'ocra delle pareti, mi tranquillizzano e torna infine la quiete nel mio animo. L'avocado fa cagare, la cucina etiope invece è molto buona. Questa metropoli, fulgida e scintillante, che sa di consolazione e cambiamento, attorno a cui gravita tutto l'esistente, sputa in faccia ai miei genitori, a tutto quello che rappresentano, al loro paternalismo gretto e reazionario, al loro provincialismo piccolo - borghese. Finalmente! Niente più ricci squartati in mezzo ai viottoli, masticati e sputati dalle volpi, l'intestino fuoriuscito e le mosche tutte attorno. Niente più cornacchie e gazzeladre e ghiandaie appollaiate luttuose sui cavi dell'alta tensione, gonfie di sicumera, altezzose nel loro ligio ruolo di nefasto presagio. Niente più rintocchi di campana a scandire le mezze ore, niente più puzza di merda di maiale. Al limite un po' di merda umana, ogni tanto: ma d'altronde, ragazzi, d'altronde la festa è qui. I piedi trascinati da kebab a kebab da bistrot a bistrot in cerca di vita alle quattro del mattino, i lampioni offuscati e la mente così lucida, bramante analgesici e cosce e labbra fresche e carnose. Qui ai cortei vengono decine di migliaia di ragazzi e ragazze ogni fine settimana, con i loro corpi snelli e longilinei e atletici, con i loro denti bianchi e l'alito di lavanda. E io in mezzo a loro come loro, gioioso. E si balla, si canta – immagina! - si ride, si piglia qualcosa e poi si balla di nuovo. E c'è così tanto amore tra le strade, così tanto, sotto i tombini, e lo sento, lo sento scavarmi i polsi e rimbalzare nelle vene. Che meraviglia, meraviglia! E in quel momento sento di essere parte di qualcosa di più grande, di un tutto, e siamo tutti figli dello stesso fango. Qui sono tutti più giovani, Marno, e più belli. Persino io ho dieci anni in meno e mi muovo scattante e fulmineo. Qui nessuno suda - tranne in palestra - e nessuno corregge il frappuccino con la grappa, al limite con l'md, ma sempre con gesto composto e mai volgare. Nei club la musica è fortissima e le luci, le luci vanno e vengono, caleidoscopiche, e le scarpe sono sempre bianche, bianchissime, appena uscite di fabbrica. Nei bagni si va a pippare, mentre si piscia nei cestini, pensa: è tutto ergonomico qui. E le ragazze! Le ragazze si truccano il naso, delicatamente, e fluttuano in aria, levitano, come monaci zen, Marno, ma con più grazia, i tacchi a qualche centimetro dal marciapiede, o le vans!, e non toccano mai terra. Pisciano tra le macchine, accovacciate sull'asfalto, con posa ieratica, e credo proprio siano loro i nuovi sacerdoti di questa fulgente civiltà. Vestali accarezzate dai neon! La sera prendo la metro e sfreccio sottoterra, a mille all'ora, in cunicoli bui eppure brulicanti di vita - come i formicai che flagellavamo da bambini, divinità implacabili - fin dentro le viscere della metropoli, con la borsa della Tesco in mano, o appoggiata languida sul linoleum, e le cuffiette piantate nelle orecchie, il mio amato Ginsberg nella borsa, nello zainetto, o aperto, con zelo, in grembo. Qui sono contemporaneo, Marno, amico mio, e i miei coetanei non lo sono solo d'anagrafe, ma anche di spirito. Non vedo più le solite facce imbruttite dalla provincia, di ragazzini cresciuti troppo velocemente o troppo poco, seviziati dal tedio, e quelle villette tutte sparse, scompaginate, con le ragnatele agli angoli, piene di suppellettili e polvere e colori vomitevoli e le galline zampettanti nei cortili. Qui non sono più schiavo del mio cognome, del mio parto. Qui sono libero, e posso fare quello che voglio. Certo, il paradiso costa. Ha il suo prezzo, d'anime o di denaro. Come ogni cosa, del resto, giusto? Qui anche San Pietro esige il suo compenso, agitante la parcella in mano. Ogni tanto rinuncio al lunch box e non vado al take away, nemmeno al greek food. Ma infine anche gli anacoreti digiunavano nelle grotte della Cappadocia, no? Ci pensa poi la mistica dell'aperitivo a lavare via il dolore; i tamburi e l'estasi dei saturnali notturni a lenire i crampi e mi dimentico tutto, anche la fame. Sai Marno, la sera, uscito dalla metro, mi avvio verso casa e, arrivatoci, salgo le scale a due a due, faticosamente. Accendo la luce, appoggio la spesa in cucina e mi metto un maglione, che fa freddo. Allora lì mi mancano i sentieri fangosi e il campetto di calcio, con le porte scheletriche, senza rete, nude come gelsi, e i vecchi rannicchiati nei trattori e mamma e papà, sì, anche loro, e ci penso un poco e i pensieri fanno eco nelle stanze e s'ingigantiscono. Ma infine scaccio via la malinconia, la lascio rimbalzare un poco, tra una parete e l'altra, spoglie di ogni candore, e mi ricordo che dovrei essere felice.
Scusami Marno, perdona la prolissità, il microonde ha suonato. Spero che giù vada tutto bene, ovvero che vada tutto come sempre, come deve andare, che tua nonna vesta ancora di fiori china in mezzo all'orto e che i ragazzini scorrazzino per le vie schiamazzanti, come in un suq, le casse con la musica a palla. Che arrivati in cima alle colline ci si accorga ancora che il tempo non scorre, mai, ma tutto rimane immutato. Qui invece i fiori il giorno dopo sono già morti. Ora devo proprio andare, Marno.
Per sempre tuo,
F.