Il barattolo
Era un grande contenitore di plastica robusta, con un tappo apri-e-chiudi. All’interno vi erano delle grosse pastiglie che avevano le sembianze di rotondi e morbidi mochi bianchi. Il loro peso specifico era molto strano ed andava in contrasto con la consistenza che rimandava a un senso di leggerezza.
Lei era seduta al bancone del bar. L’unico luogo di incontro in quel posto. Dall’altro, sul crinale dove si trovava il bar si poteva scorgere il mare, perennemente arrabbiato, che si abbatteva sulla scogliera che sorreggeva quel luogo dimenticato dal resto del mondo. Tutto era perennemente avvolto da una pesante nebbia, umida, appiccicosa. All’interno del bar c’era un caminetto che levava l’umidità dalle ossa e rendeva i maglioni di lana fonte di prurito e fastidio. Attorno a lei era pieno di persone, molte delle quali le sembrava di conoscere da sempre. Erano sconosciuti ma conosciuti. Nessuno sapeva dell’altro, il motivo per cui si trovava li.
Molte di quelle persone si erano perse, non erano più riuscite a trovare la via di casa e da anni e tempi ormai lunghi si erano arresi al fatto che quella fosse la loro pubblica piazza, il loro luogo di incontro. Il fulcro delle loro vite. Nessuno sapeva la storia di nessuno. Ogni racconto cominciava da quel luogo. Quel luogo a picco sul mare e eternamente avvolto da una pesante cortina di nebbia.
A lei sembrava di scorgere tra tutte quelle persone visi familiari, di parenti e amici, di zie lontane, di persone che per un po’ avevano percorso un pezzo di vita insieme a lei. Sapeva che da li non poteva uscire molto facilmente. In più aveva un compito da svolgere, che si focalizzava sul grande barattolo quasi uguale identico a quelli delle proteine in polvere.
Nessuno sapeva dove dormivano gli altri, dove andavano a ristorarsi, a lavarsi, a chiudersi nel loro privato. C’erano luoghi, sul crinale, dove le persone si disperdevano. Un fitto bosco di abeti consentiva una migliore dispersione. Non esisteva una vita prima, non esisteva una vita dopo.
Lei poteva immaginare che ognuno di loro era lì, come lo era lei, da disperso al quale era stato affidato un compito. Da li non si poteva uscire. Pochi se n’erano andati, ma i loro visi nella nebbia erano come fantasmi. Sparivano dentro queste piccole automobili con dei cingolati. Le voci che giravano al bar dicevano che si doveva attraversare un ponte lunghissimo e che per farlo ci sarebbero voluti due giorni dentro le automobiline che arrivavano e partivano silenziose.
Stava seduta al bancone e si guardava intorno. Molti visi familiari di un tempo passato attraversavano le sale listellate di legno. Nessuno pareva riconoscerla. Qualche guardo veloce poi ognuno tornava ai suoi discorsi. Alle birre da 0.4 servite in quei boccali di ceramica un po’ datati. Tutto dava l’idea di essere in un rifugio in alta montagna. Forse tutti quelli che erano lì portavano con loro un peso simile al suo.
Beveva la birra lattiginosa al bancone, guardando l’enorme barattolo. Era di nuovo giunto il momento di mangiare un’altra pastiglia mochi.
La birra era finita in fretta. Con torpore si era alzata dalla sedia e si era diretta fuori al vento. Stava piovendo. Le persone che erano lì camminavano senza logica cercando di ripararsi. Piano piano scende le scale che conducevano alla sua botola, al suo rifugio. Non sapeva se anche gli altri ne avessero uno smile, ma certe notti sentiva dei pianti sommessi e dei lamenti che provenivano dall’altra parte del muro di calce del suo rifugio. Si accoccola a letto. Stava sudando freddo. L’umidità fuori era insostenibile. Si accende un paio di sigarette e legge qualche pagina di un libro nella semi-oscurità. Una delle compagne che era con lei le aveva regalato una fiasca di whiskey. Era lì da più tempo di lei. Non sapeva quale fosse il suo compito li.
-Tieni ti sarà utile fidati. Due gocci prima e due gocci dopo.
Apre il barattolo e ingoia un’altra pastiglia. Ne mancavano dieci. Dieci esatte. Sapeva che se non avesse finito quelle pastiglie ci sarebbero state delle conseguenze. Sentiva un senso del dovere enorme. Devo farlo devo farlo devo farlo. È importante che io lo faccia. Il peso era enorme, non riusciva più a trattenere l’angoscia. Non parlava più con nessuno lì sul crinale.
Non posso perdere tempo a pensare al perché.
Esce dalla botola. Si dirige verso una struttura a picco sulla scogliera. Un santuario, un luogo di silenzio. passano molte persone, ognuna delle quali si dirige verso il proprio loculo, verso il proprio segreto. Nell’avanzare lei si dirige verso il suo.
Apre la teca. Un piccolo feto rannicchiato è attaccato a un respiratore di metallo e due cannule infilate nel naso. Si guarda attorno, stacca il respiratore dalla bocca e controlla che l’aria e qualsiasi altra cosa mischiata ad essa funzioni.
Succedeva cosi. Lei ingoiava le pastiglie. Il senso del doverlo fare era un fardello pesantissimo. Nella sua testa non poteva sottrarcisi. Dopo arrivava un momento di buio ed ecco un nuovo feto dentro la teca. Aveva perso il conto di quanti erano stati prima di quello.
Probabilmente non c’era mai stato modo di contarli. Ora aveva ancora dieci pastiglie. Nessuno le aveva fatto trovare altri contenitori fuori dal suo rifugio.
Una voce alle sue spalle le sussurra: c’è un modo per smettere, smetti. Prendi la cannula, spostala leggermente. Al feto non arriverà più aria o quello che è, e morirà lentamente.
Non riesce a riconoscere la voce.
Rimette tutto apposto, si alza dal loculo e chiude la teca. Fa freddo, ci sono persone che girano per la grande sala scura con dei mazzi di fiori gialli e arancioni.
La notte si alza, esce dalla botola. Ha il cuore pesante. La mente in stato di allerta. Uccido i feti e sono libera. Si dirige verso la struttura. Apre la teca. Arriva di nuovo alle sue spalle quella voce sconosciuta. Le prende la mano. Ecco, cosi. Spostala. Non sentirà niente. Qui è tutta un’illusione. Il senso del dovere ti è solo stato indotto perché non hai prospettive di poter andare da nessuna parte.
Ritorna nella botola e dopo aver ingoiato qualche calmante che trovava periodicamente sul suo tavolaccio. Crolla in un sonno profondo.
La mattina dopo entra al bar. Stava bevendo la sua solita birra lattiginosa. Sente le voci della gente.
- Io qui non so cosa sto facendo, ieri ero nel bosco e ho dovuto fare delle rapide velocissime in un torrente che saliva in alto. La corrente andava verso su? Avete capito? Cose da non credere. E continuavo ad avere paura di perdere i miei figli. Ma io qui di figli non ne ho e non li vedo da chissà quanto…
- … E ieri sono scesa fino al mare in tempesta, volevo buttarmici dentro e sentire il freddo e morire così. Qualcosa mi ha convinto che dovevo rimanere su, sono stata spinta violentemente indietro, si è aperto un ascensore con due scatole di pillole. Ne ho prese quattro e sono salita su con l’ascensore. La nebbia non mi fa ricordare un cazzo.
- … Tagliavo la legna, ragazzi non ne posso più di teste di gatto mozzate. Prendi e metti, prendi e metti nei sacchi ogni volta che tagli… la solita routine e poi nella nebbia neanche io capisco poi molto, ma è così devo farlo.
Bla bla bla… un marasma di discorsi simili inondano le sale. Assoluta confusione e in-coscienza.
E tantissime altre voci che sussurravano tra di loro raccontando le proprie giornate con assoluta indifferenza, bevendo la birra lattiginosa e camminando su e giù, ogni tanto controllando il fuoco.
L’uomo dietro il bancone pareva indifferente a tutto quello che succedeva intorno a lui. Asciugava bicchieri e preparava birre lattiginose. Era elegante nel suo completo nero e bordeaux. Aveva quattro anelli alle dita. Niente che lasciasse trasparire la conoscenza di qualcosa che a tutti i sostanti che erano lì fosse ignota. Forse anche lui aveva il suo compito.
Finta la birra esce di nuovo e ritorna alla grande struttura arroccata sul dirupo e si dirige verso la sua teca. Il feto del giorno prima non c’era più. Ora ce n’era uno nuovo. Lo riconosceva, che non era quello del giorno prima. La pastiglia l’aveva presa.
Temporale. Pioggia battente. Il cielo si fa scuro in pochi secondi, sembra notte. Stacca il respiratore, inverte le cannule. Chiude la teca e torna nella botola.
A quel punto prende la nona pastiglia-mochi rimasta. La ingoia e torna al bar. Passa la giornata a fissare il vuoto. Ad ascoltare le parole della gente. Esce cammina per la scarpata, incontra altri fantasmi come lei. Deve produrre feti, deve uccidere i feti. Non può buttare le pastiglie. Deve deve deve produrre i feti. Si siede su una roccia e si distende. Oblio. L’umidità è insopportabile. Le bagna le pagine del libro. Continua quindi a camminare verso le rapide del torrente. È una costruzione che sembra quasi artificiale. Sale, scende, si infila in tunnel in cui il basso si confonde con l’alto. Vede le persone che lo percorrono: hanno le facce serie e lo sguardo assente.
Oblio.
Si ritrova nella sua botola. Prende un'altra pastiglia mochi. Sarà cosi finché non ne rimarrà alcuna.
Il giorno dopo va all’arroccamento e uccide il feto.
Una mano le si poggia sulla spalla. Trasalisce.
È la solita voce.
-Stai facendo la cosa giusta. Il dovere è indotto. Ricordatelo. Ti tengo d’occhio. Tu finisci il tuo compito. Penso tu ne abbia abbastanza no, del senso del dovere! Ahaha! Dai il procedimento lo sai. Chiudi la teca.
Insieme escono dalla struttura arroccata. Ancora persone si aggirano per il luogo con dei fiori gialli e arancio in mano.
Il procedimento di mangia-uccidi-birra lattiginosa dura per le ultime otto pastiglie.
Uccide l’ultimo feto. Nessuno le ha consegnato più alcun barattolo. Non ci sono state conseguenze. E se si fossero ( e chi sa chi poi) dimenticati che lei era lì a produrre feti? Perché non mi danno più pastiglie?
Era già notte inoltrata quando si infila nella botola. Beve i due gocci, ingoia i calmanti e cade in un sonno simile alla morte. Il barattolo giace aperto e vuoto sul tavolaccio di legno.
L’ultimo feto aveva smesso di respirare da circa un’ora. Si era seccato tutto come un seme, fino a diventare polvere. L’inalatore continuava a soffiare nel silenzio dell’edificio arroccato. Tutt’attorno mazzolini di fiori color arancio.
Apre gli occhi.
Si ritrova seduta di fronte ad un enorme tavolo di mogano, in una grande stanza che da spazio verso un salottino lungo e di forma rettangolare. I soffitti sono molto alti, intarsiati d’oro e dipinti, con finte colonne portanti di stucco decorate di fiori e frutta. Davanti a sé ha un bicchiere di whiskey e una scatola di legno con delle sigarette che emanano un profumo di tabacco dolce.
Tiene la schiena dritta. Il silenzio si fa molto pesante. Dal salottino rettangolare adiacente scorge un uomo seduto su una poltrona di velluto azzurro. L’uomo indossa un completo scuro. Si alza, riempie un bicchiere di whiskey e si siede di fronte a lei.
-Allora tutto è diventato polvere, lo sai? Ti opprimeva il senso del dovere indotto, questo lo so io. Nel tuo hai compiuto un atto sovversivo di liberazione; sei stata un esperimento, come lo sono o lo erano tutte le persone in quel luogo remoto. Spero che la vista ti sia piaciuta almeno.
Immobile lei fissava il bicchiere che aveva davanti, incapace di rispondere, incapace di reagire. Da quanto tempo non prendeva decisioni che provenivano da lei? L’uccisione dei feti era stato un atto di liberazione?
- Istilliamo nelle persone un totale senso di dovere verso atti casuali, facciamo prove e test di resistenza, fino a che il soggetto si ribella al senso del dovere. Fino a che non riemerge di nuovo l’istinto di libertà. Ma che cosa è la libertà? Mi sapresti rispondere?
- È quello che provi quando cambi direzione credo. Il senso di dovere nel produrre feti è diventato senso di doverli distruggere, presumo.
Le tremavano le mani.
- Sai, non tutti escono da li. Abbiamo soggetti in esame da decenni. Da decenni non cambiano direzione. Gli si istilla un senso di dovere e per loro quello diventa assoluta verità. Smettono di farsi domande e smettono di pensare al futuro. Il bar e la birra sono un buon modo per raccontarsi il presente.
L’esperimento con te è finito. Scendi le scale che sono dopo la porta alle tue spalle e ti troverai esattamente dove dovresti essere.