“Isn’t it strange? I am still me, you are still you, in the same place. Isn’t it strange how people can change? From strangers to friends, friends into lovers and strangers again.”
Il disco di Celeste comincia così. Il brano si chiama Strange ed è sostenuto praticamente solo dalla voce. La voce graffia, tira, esaspera. Come avesse pianto tutto quel che poteva.
Sono giorni che sento questo album in sottofondo, mentre cucino, mi vesto, sistemo un po’ in casa: mi rilassa. Non lo ascolto veramente, lo lascio suonare.
Oggi mi sono alzata e l’ho sentito. Ero in bagno, allo specchio. Controllavo che il piccolo livido sotto l’occhio stesse rientrando. Ero distratta, appisolata nella routine che riempio di compiti. “Vai in bagno, fai pipì, il bidet, lava la faccia, prendi i panni dalla cesta, carica la lavatrice, risali in camera, prendi il pigiama, porta il pigiama in lavatrice, metti il contorno occhi dal frigo, metti a bollire l’acqua…” così, in continuazione: liste di compiti che dimentico e ricomincio ad elencare.
Oggi è sabato, non ho fretta. Mi controllo nello specchio, permetto ai miei elenchi di farsi dimenticare, abbasso la guardia.
La sento.
Mi accascio un po’, le spalle ricurve, quel calore dietro gli occhi.
Non voglio piangere.
Lo sento.
Quel buco dentro, sotto lo sterno. Un vuoto che tira, con una sua forza attrattiva pesantissima.
No, non piangerò.
Comincio a elencare. Mi lavo, mi vesto, esco.
Vado al mercato.
Sono mesi che non vado al mercato perché sono mesi che non mi va di alzarmi e poi non mi va di vestirmi.
Faccio la spesa mirata e torno a casa con un solo scopo. C’è una bella luce, è una bella giornata, il cielo è pallido ma terso. Manca solo il freddo. Il freddo non c’è.
Metto su una playlist, quella di Coez.
“Coez, che si chiama Silvano: un nome abbastanza simpatico in fondo.”
Non voglio piangere.
Faccio le cose come si deve, ho anche preso la cipolla gialla, che quella rossa non va bene per il soffritto.
Devo fare con calma, è fondamentale concentrarmi sui passaggi, lasciare il resto fuori.
Impasto.
Macinato, salsiccia, la scorza di limone, il basilico, una punta di paprika, il timo, sale, pepe, un uovo, il cous cous, ché il pan grattato le secca.
Il sugo che cuoce, io che impasto e appallottolo. Le dispongo in cerchi concentrici come un mandala indiano, chissà che non ci trovi della pace, in fondo. Le tuffo rotonde nel sugo, copro, abbasso.
Posso riuscirci.
Inizio a elencare tutto ciò che potrei fare per curarmi: maschere, scrub, balsamo, creme, smalti.
Posso fare tutto. Posso farcela.
Mi vesto carina, molto più del dovuto. Mi trucco con precisione spasmodica.
Sono pronte, fumanti e tenere. Scaldo una fetta di pane e ce le appoggio sopra, con il sughetto. Bellissimo.
Funziona.
Un morso. Sono insipide. Ho dimenticato il parmigiano.
Che stupida.
Non piangere, stupida.
Esco.
- Sei elegantissima!
- Sì. Ho esagerato, ma ho passato la giornata a non piangere.
- Perché?
- Oggi è il compleanno del mio ex migliore amico.
Oggi è il tuo compleanno. Oggi è un anno che ho chiuso con te.
Un anno fa salivo su un treno e venivo a darti il tuo regalo e a dirti addio. Mi sono ritrovata a pranzo con tuo padre, a darti un regalo che ti ha commosso e a fare di nuovo l’amore con te. Non ti ho detto addio ma l’ho pensato ed è stato lo stesso.
- Cos’ è successo?
- È successo che abbiamo scopato.
- Cristo! Lo dici come fosse morto.
Non sei morto ma non fa molta differenza. Il buco che hai lasciato è così, come quando ti manca una persona cara e non puoi più averla. Non puoi parlarci, non puoi chiedergli consiglio, non puoi vagliare i tuoi più reconditi pensieri attraverso di lui. Non puoi perché quella persona non c’è più.
Tu non ci sei più.
Il mio tu, quello che conoscevo io, quello che mi conosceva.
Quello che mi aveva portata a bere tutta la notte la sera che era morto un mio amico, quello che avevo ascoltato per ore parlare della sua ex, sui gradini del Duomo.
Quello di cui sentivo la voce anche quando leggevo un messaggio, perché di una persona come te, come tu eri per me, ti resta dentro la voce, anche a chilometri di distanza.
Niente, non c’è più niente di tutto questo e a volte penso che sarebbe più semplice se fossi morto.
Che poi se morissi non so nemmeno a che punto della cosa lo verrei a sapere ed è anche abbastanza tremendo, dato che sono quella che sa le tue richieste per il funerale. Ricordi? A qualcuno dovrò pur dirle, che se la banda del paese non suonasse Hyperballad sarebbe un vero peccato.
Isn’t in strange?
Non che vorrei fossi morto, ma almeno potrei non avercela con te. Quando muore qualcuno puoi separarle, la rabbia e la mancanza. La mancanza di chi è morto, la rabbia di chi scegli averne la colpa, fosse anche Dio.
E invece no, tu non sei morto. Semplicemente, tu non hai scelto NOI. E ora non c’è più un NOI, in nessuna forma.
A me restano la rabbia e la mancanza e sono entrambe colpa tua.
I am still me
Un buco. Dodici mesi a far finta che andasse bene, che fossi in grado di superare anche questa, che fosse una rottura come le altre. Convincermi che avere rispetto di me e del mio valore mi avrebbe aiutato a chiuderlo, il buco.
Non è andata così.
Tutti gli sforzi fatti per non mandarti le migliori vignette politiche alla fine hanno reso le vignette meno divertenti. Sono passata ai gattini e a volte mi chiedo ancora cosa sia successo al mio umorismo.
La politica stessa ha smesso di sembrarmi divertente, è diventata un lavoro. Il mio fottuto lavoro. E tutte le volte che incontro quei personaggi mitologici di cui avremmo riso tantissimo non so a chi raccontarlo. Iniziano a sembrarmi tutti uguali.
you are still you
Ogni volta che la Juve non vince e me ne dispiaccio ma solo un po’, non c’è nessuno che mi sfotta con il tuo garbo. Sto diventando anche troppo juventina.
E tutte quelle notizie mirabolanti che ci avrebbero fatto ridere insieme, hanno smesso di farmi ridere perché hanno la tua voce. E la tua voce non mi fa più ridere, mi fa un male cane.
È così che funziona, il buco. Si prende pezzi di me e della mia vita senza che possa oppormi. Pezzi su cui tu avevi messo il tuo marchio e che ora sanno di te e vanno buttati. Perché tu non ci sei più.
E il buco cresce.
in the same place.
Anche la tua città ha smesso di piacermi. Una volta era un rifugio su cui potevo sempre contare. Era più facile aggirarsi per la metropoli col pensiero di avere un posto sicuro a due ore di treno. Perché qualunque fosse il tempo a disposizione, saresti comparso in un qualsiasi punto della città, che fosse per fumare una sigaretta in stazione, per uno spritz dai cinesi o per un numero indistinto di birrette a zonzo. Ero più forte sapendo di poter contare su un posto così, con te dentro. Ora non ho più voglia di venirci.
Isn’t it strange how people can change?
Così il buco si allarga.
E quando passo in stazione per tornare dai miei, scaccio il pensiero di poterti incontrare per caso, che invece a volte ci pensavo e cercavo la tua macchina tra le altre e chissà, alle volte il caso. Ma tanto ora la macchina nuova non la riconosco e forse non ti parlerei, se ti vedessi. Tanto vale passare a testa bassa, grigia e arruffata, che a volte credo non mi riconosceresti nemmeno.
Magari è successo davvero. Magari sono passata e non ci siamo visti, non ci siamo neanche riconosciuti. Se ci pensi è tremendo ma è giusto, ormai siamo questo: due che non si conoscono più.
From strangers to friends
Alla fine mi è passata anche la voglia di prendere treni, la capacità di tenere aperte le finestre con altri punti d’Italia, la voglia di fare cose frivole. Così finisco per starmene a casa, nella casa che ho cercato follemente, quella perfetta per me, che ti ho descritto in ogni angolo. Quella in cui ti ho aspettato per mesi.
La mia prima casa da sola, dopo l’ultima, quel mezzo ostello con il parquet e nessuno che puliva la cucina, affacciata su un cortile condominiale meraviglioso.
Te la ricordi? Dicevi che sembrava lo stabile di “Una giornata particolare” di Ettore Scola. La odiavo, ma se ci penso ora mi sembra l’ultimo posto in cui sono stata felice.
friends into lovers
Che non è così, sono abbastanza certa di essere stata felice anche dopo ma ora è tutto finito nel buco, come se si fosse preso anche quello che non doveva.
Come quando ho saputo che i nostri amici organizzano una gran festa per capodanno.Ho pensato che fosse un buon modo di tornare a quello che so, alle cose facili.
Quella festa lì è sempre stata un momento per ritrovarmi, per ricaricare le pile, specchiarmi nelle risate delle persone che conoscono la parte di me più libera e la sorreggono. E quando ho pensato a quanto mi potesse servire questo capodanno mi sei apparso tu alla festa e ho capito che ti eri preso anche quello.
Un altro pezzo è franato e il buco si è allargato ancora e alla fine tutto è più instabile, tutto barcolla ed è colpa tua e io non so come difendermi.
Non so dove cercarmi, non so come amarmi se nemmeno tu mi hai amato, tu che mai avrei creduto potessi calpestare quello che eravamo.
“Io credevo che quello che c’è tra noi sarebbe comunque sopravvissuto a tutto.” Non era un buon motivo per fargli fare tutti i crash test che potevi immaginare.
Sembrava una televendita americana: non voglio sapere se questo coltello può tagliare una lattina, voglio che tagli la mia cena. E invece no. Sottoponiamo questo rapporto a tutte le prove più improbabili, colpiamolo di menefreghismo e pigrizia, mentiamo, facciamo promesse che non intendiamo mantenere, tanto sopravvivrà a tutto in virtù di non si sa bene quale masochismo di uno dei due.
and strangers again.
Un legame è importante quanto ciò che ciascuno decide di metterci. E il nostro ha smesso di esserlo quando hai scelto di non darci una possibilità, a costo di dover sfoggiare il tuo peggio, quello che mi avevi sempre risparmiato.
Non lo so, forse dovevo solo venire a vederti più da vicino per restare delusa da te, ma poi era troppo tardi. Mi avevi piantato un amo nel petto e quando ho strappato, eccolo: il buco.
Ascolto Gazzelle perché non si chiama Silvano, ho smesso coi treni, evito le feste, sbaglio le polpette e mi si sticchia sempre un’unghia quando metto lo smalto.
Ci ho messo dodici mesi a capire tutte queste cose e oggi mi sono crollate addosso mentre pensavo ai modi in cui ho sempre celebrato il tuo compleanno e Celeste cantava che è strano che certe persone passino dall’essere estranei ad essere amici, poi amanti e di nuovo estranei.
Non è strano. È tremendo, fa un male cane e per non sentire il male togli pezzi della tua vita su cui fondavi la tua identità e finisci per non sapere più nemmeno chi sei e, alla fine, davvero, chi lo verrebbe a sapere se piangessi?