Rumorìo di voci, rimestìo di progetti e di disegni tracciati per aria con mano incerta, parole che profumano di niente, significanti auto-riorganizzantisi e auto-schematizzantisi in una perpetua lisergica semiosi circolare accompagnata da quella strisciante e fantasmatica sensazione di star parlando senza dire nulla di quello che si vorrebbe veramente intendere e che abbia finalmente un senso, ovverosia: nulla. Eppure tutto questo immaginare non solo basta, ma pare addirittura essere troppo, pare deflagrare, brillare e far straripare le coscienze, i volti, le passioni, le potenzialità di propositi e programmi per l’immediato e lontano avvenire - mentre l’adesso ha il sapore del possibile e del disciplinabile -, pare di avere l’Universo fra le proprie dita, eppure fra le mani non rimane niente, nell’etere solo il ricordo di gesti e linguaggio, soffici e fragili, morbido e penetrante.
Su parole distorte alla bisogna e aspettative progressivamente involute ci si adagia, sospesi, sdraiati sopra una nuvola impalpabile e sfuggevole; fantasmi che si guardano attorno e annuiscono a contemplazione di un presente felice e vuoto, sorridenti e inermi nei confronti di ciò che è, devastati e sfibrati dagli infiniti mondi possibili però mai e poi mai resi probabili dal volere, troppo debole e pigro ed errabondo per potersi permettere di domare il caos, il colpo di dadi che mai abolirà il caso clinico dell’essere umano che continuamente mescola le carte ritrovandosi sempre allo stesso punto, ma con un’inscalfibile fiducia che si autoalimenta instancabilmente sebbene si ritrovi costretta a fare la fila con se stessa ogni giorno ogni mattina ad ogni risveglio.
Indietreggiando senza dare nell’occhio dall’assembramento di figure umane l’idea che si fa spazio nella mia testa è che le forme, i contorni, le voci, l’atmosfera, i colori di quell’indistinto nuvolìo di corpi e anime possano acquisire un senso più compiuto e circoscritto e definito e che la catalogazione possa riuscirmi più facile ed immediata man mano che mi allontano, quando in realtà non faccio altro che spingermi più o meno involontariamente in un vicolo cieco, spalle al muro, senza possibilità di distaccarmi più di così, finendo per scorgere, ormai costretto dalla prospettiva definitiva, una luce strana ed attraente in quel nugolo sfuggente di umanità proteiforme e variegata. Incoraggiato, quasi sorpreso da questa epifania, religiosamente mi riavvicino e ascolto, ascolto e provo ad imparare a scivolare nei meandri del non-detto e del non-inteso, fingo di inserirmi nella conversazione, vengo dileggiato e vengo compreso, vengo compresso e allietato, quindi accolto e scaricato. Non capisco o forse non concepisco che non ci sia nulla da capire, me lo faccio bastare e mi ributto in strada ad immaginare altri spazi altri giochi altre incomprensioni. Raccolgo le forze e volo via.