Mi gioco quasi tutto quello che guadagno al B&B di famiglia e vinco di rado. Non m’importa di nient’altro. Anche oggi le cose vanno male, i risultati delle partite di calcio su cui ho puntato sono già compromessi, anche se i primi tempi non sono ancora finiti. Mi verso un bicchiere di vino rosso e studio le quote. Bisogna rimediare alla disfatta. Seguire lo sport senza il mordente della scommessa non ha senso, conta soltanto il coinvolgimento personale, la capacità di indovinare gli esiti e di far fruttare intuito e competenza.
Scelgo le quattro squadre su cui puntare, infilo in tasca lo Zippo, l’ultimo sigaro ed esco di casa. A Rocca Imperiale è una domenica gelida. Il sole è di ghiaccio tra nuvole da neve e tira un vento assassino dallo Ionio. La sciarpa mi copre anche il naso. Cammino a occhi bassi, in questo paesino tra la Calabria e la Basilicata, un luogo sul confine, dove si mescolano e si confondono usanze, dialetti e identità di tremila persone né calabresi né lucane, oppure sia l’uno che l’altro in pari misura. Certuni vorrebbero assorbirla da una regione all’altra, senza spostarla, per appropriarsene. A me non importa neanche di questo. Facessero pure.
«Ehilà, come stai? Come va al lavoro?», mi domanda zio Franco, che sta facendo passeggiare il suo cane cieco. È un uomo gentile, generoso e comprensivo. Non lo capisco.
«La gente viaggia e io sto sempre qua, loro hanno qualcosa da fare e io no», rispondo senza rallentare il passo.
Entro nell’unica agenzia di scommesse sportive che c’è, una novità inattesa che mi ha fagocitato immediatamente. Dentro mi muovo come un fantasma muto e diffidente. Gli altri avventori non ispirano alcun tipo di rapporto. Ogni tanto li osservo, li ascolto, li giudico. Hanno espressioni rocciose e voci cavernose, strati e substrati di ignoranza, gerghi solidi come aggregati minerali, gestualità limitate e ripetitive, ingenuità sedimentate che creano crepe, e con la loro fame di condivisione, quando si avvicinano, diventano frane da evitare. Sono derelitti privi di curiosità, individui sopraffatti da circostanze a cui non sanno opporsi, creature preistoriche in un locale riscaldato.
Torno per strada un minuto dopo, con venti euro in meno in tasca, neanche il tempo di pensare che è strano frequentare un posto per anni e non salutare nessuno.
Mi dirigo al fiume, per una lunga passeggiata. Non ho di meglio da fare.
Mi accomodo tra l’erba alta e accendo il sigaro. È uno scorcio tranquillo, fuori dal disorientamento territoriale, dove esiste soltanto lo scorrere dell’acqua e il vento tra i cespugli.
Mi distendo e alleggerisco la mente, senza pensieri sui soldi, sul lavoro, sulle scommesse e sulla voglia di una donna.
A volte immagino di vedere il cadavere di qualcuno che detesto, trasportato dalla corrente. In questo fiume mi è passata davanti una moltitudine di salme: parenti, insegnanti, compaesani, calciatori, fantini, piloti e clienti irritanti. Torrente Canna, cimiteriale.
Vorrei soltanto rilassarmi, ma questo vento mi ricorda il giorno in cui ho portato qui l’unica ragazza che ho amato. Era più giovane di me, sincera, spontanea, rossa di capelli e lentigginosa. Viveva a Nova Siri, il paese speculare. Ci siamo baciati con aliti infiammati e toccati con mani spregiudicate, immersi nell’erba alta che sembrava un mare verde agitato. Poi ha scovato una delle mie cicatrici e ha chiesto come me l’ero fatta.
«Con il gioco degli impavidi, lo facevamo con il mio branco. Creavamo delle situazioni di pericolo dalle quali dovevamo salvarci. Quella volta abbiamo buttato un grosso coltello in mare, a turno siamo stati legati mani e piedi, e gettati in acqua. Nella fretta di tagliare la corda ho esagerato.»
«E questo segno?», ha continuato lei spostando il dito dalla caviglia al ginocchio.
«Sempre con loro, abbiamo provato a fare i funamboli. Ho fatto un volo di cinque metri.»
«E tutti questi tagli sulle braccia?», ha proseguito, allontanandosi.
«Dovevamo cospargere di sangue uno di noi e rinchiuderlo in un porcile, gettando la chiave nel fango, tra i maiali. È servito il sangue di tutti.»
Il gioco si è interrotto tra i porci, non siamo riusciti a salvarlo. Sarebbe potuta andare storta in tante occasioni, si sapeva, faceva parte del gioco, eppure gli altri sono crollati, come se non sapessero che la morte esiste realmente. Quella volta che mi hanno rinchiuso in una botte per due giorni non è successo niente, dovevo controllare il respiro e le funzioni corporali, è stata dura ma è andata bene. O quando ho dovuto affrontare un percorso a ostacoli in motorino, bendato, dopo averlo visto solo di sfuggita, e al motorino erano stati tagliati i freni. I sensi di colpa che hanno assalito gli altri sono assurdi, sapevamo tutti cosa stavamo facendo e ne avevamo accettato le possibili conseguenze. Io mi sono ubriacato, ho fatto un gran sonno e al risveglio la vita doveva continuare.
«Perché facevate cose tanto rischiose?»
«Altrimenti che gusto c’era?»
E di colpo si è sentita nel posto sbagliato con la persona sbagliata. Senza dire una parola è saltata in piedi e velocemente ha raggiunto il sentiero in cima alla cunetta. Ho deciso di dirle qualcosa quando ormai era lontana, così ho dovuto urlare: «Qui non c’è niente per noi. Davvero non mi capisci?»
Come ha fatto a non comprendere la frustrazione dei giorni insulsi, a non concepire il desiderio di esperienze al cardiopalma? Io e i miei compari di rischio eravamo adolescenti senza svaghi, senza divertimenti. Come ha potuto condannare chi reagiva mettendo alla prova il proprio coraggio?
Ancora oggi, dopo tutti questi anni, non riesco a capirlo, ma non ho mai sperato di vedere il suo cadavere trascinato dalla corrente del fiume. Non le porto rancore. Invece un mattino ho visto galleggiare uno degli impavidi. Mi sono gettato in acqua e l’ho tirato fuori. Era gonfio, rigido come un pezzo di legno, aveva la pelle violacea e delle foglie gli erano entrate in bocca.
Da diversi mesi nessuno aveva più sue notizie. Era partito di notte, senza avvertire. Neanche un messaggio per spiegare dove andava e perché. Era fuggito senza denaro, all’improvviso, ed era tornato solo per morire. Si era lasciato cadere giù dal ponte, imbottito di sonniferi. Ancora una volta in silenzio.
Poi sono morti anche gli altri due. Uno guidava ubriaco, l’altro ha avuto un’overdose di eroina.
Mi manca la loro spensierata follia, l’abisso che mi hanno lasciato dentro è incolmabile, l’effetto dell’adrenalina non si dimentica, soprattutto se compensa la spietata banalità della provincia. Ma quella è sparita prima di loro, spazzata via dai rimorsi.
Strappo ciuffi d’erba che mi volano via dalle mani. Sono rimasto solo, a causa dei loro tormenti interiori. Se qualcuno doveva avere dei rimorsi quello ero io. Sono stato io l’ideatore del gioco e di tutti gli azzardi. Eppure sono ancora qua.
E la ragazza rossa si è sposata con un farmacista di Cosenza e ha avuto due figli.
Il freddo sembra aver congelato le nuvole, scorrono come barche bianche nello spazio azzurro.
Spengo il sigaro. Do un calcio a un sasso che crea una serie di cerchi concentrici nell’acqua.
Ecco il cadavere del farmacista di Cosenza, mi passa davanti con la faccia all’insù, trasportato dalla corrente.
Ritorno a casa, capo chino, in direzione del Castello Svevo che domina tutto il paesaggio, incontrando persone che non conosco. Tutti invece conoscono la mia storia, il mio passato da selvaggio incosciente. Mi incolpano delle morti degli unici amici che ho mai avuto, con gli sguardi, con i borbottii dietro le spalle. Mi incolpano soprattutto di essere sopravvissuto.
Credono di avermi abbandonato nell’emarginazione. Ma io me ne frego dell’isolamento, non lo temo, non ho niente in comune con questa gente. Non la capisco e non m’interessa.
Aspetto di avere un’idea che mi faccia sentire ancora vivo, l’invenzione di un nuovo gioco spericolato, sperando che arrivi il prima possibile. L’unica cosa di cui ho paura è che non arrivi mai, che la mia fantasia sia scomparsa con loro, volata via come un ciuffo d’erba trascinato dal vento.